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domenica 26 novembre 2017

Gli auguri di carta

C'era un tempo in cui gli auguri non arrivavano in tempo reale sui telefonini o nelle caselle e-mail. Anni fa ci si affidava all'invio di cartoline tramite posta che, magari, per giungere a destinazione ci impiegavano anche una settimana.

C'era un tempo in cui gli auguri, forse, erano più sentiti e più sinceri perché farli era un procedimento lungo: dapprima si doveva decidere a chi inviare le cartoline, in seguito scegliere l'immagine più adatta, poi scrivere “in bella grafia” gli auguri ed infine imbucarle nella cassetta della posta.
Insomma era proprio il fatto di aver dedicato una parte della propria giornata a qualcuno che rendeva questi auguri così speciali.



Oggi basta premere distrattamente qualche tasto e gli auguri sono pronti ad essere inviati a tutto il mondo.
Eppure quanti di questi auguri virtuali saranno gelosamente conservati come invece accadeva per le cartoline natalizie?

Anche le immagini erano molto evocative e pregne di un fascino particolare.
Vi erano fiabeschi paesaggi innevati, bambini in veste di pastorelli, alberi di Natale e slitte colme di regali trainati da cavalli con eleganti bardature, tutti disegnati con mano un po' ingenua.




Erano importanti queste cartoline.
Una volta ricevute diventavano quasi un semplice regalo di natale, utilizzate per abbellire la casa o raccolte in album creati ad hoc, realizzati in cartoncino con apposite fessure in cui inserire gli angoli dell'immaginetta.



La tradizione di inviare auguri, comunque, ha origini remote.
E' un antichissimo costume nato in Cina grazie alla scoperta della xilografia che diffuse largamente l'uso di realizzare piccole immagini da tenere in casa o da appendere sopra le porte d'ingresso.
A partire dal Quattrocento tale usanza si diffuse nei paesi di lingua tedesca, in cui per il nuovo anno si usava regalare delle piccole stampe in cui erano mescolati elementi cristiani ed elementi di tradizione pagana.
All'inizio dell'Ottocento, con il perfezionamento dei metodi di stampa, i commercianti cominciarono a riprodurre la stessa immagine su vasta scala, sbizzarrendosi sia sui soggetti sia negli effetti speciali, utilizzando le tecniche del collage di vari elementi quali stoffe, velluti, strass, ma anche impiegando parti mobili mosse da sottili lamelle di carta.
Verso la metà del secolo, grazie allo sviluppo della stampa, l’invio di biglietti per le Sante Feste divenne un fenomeno di massa.



La prima cartolina augurale “popolare” fu creata nel 1870 da un litografo inglese, John S. Day, che stampò su un’ufficiale e nuda cartolina postale da mezzo penny una cornicetta composta da vischio e agrifoglio, riportante nel centro la classica frase “Buon Natale e felice Anno Nuovo”.



domenica 12 novembre 2017

San Martino: tra leggenda e tradizioni popolari

Martino di Tours, nacque a Sabaria in Pannonia, nell'odierna Ungheria nel 316 o nel 317 . Il padre era un tribuno dell'Impero Romano. Ancora bambino si trasferì coi genitori a Pavia, dove suo padre aveva ricevuto un podere in quanto ormai veterano, e in quella città trascorse l'infanzia.
Benché la sua famiglia fosse pagana, egli diventò cristiano anche se non si fece battezzare fino all'età adulta.
Nel 331 un editto imperiale obbligò tutti i figli di veterani ad arruolarsi nell'esercito romano.
Il giovane Martino fu reclutato nelle Scholae imperiali ed inviato in Gallia, presso la città di Amiens, dove trascorse la maggior parte della sua vita da soldato. 
Faceva parte, all'interno della guardia imperiale, di truppe non combattenti che garantivano l'ordine pubblico, la protezione della posta imperiale, il trasferimento dei prigionieri o la sicurezza di personaggi importanti.
Proprio nella città di Amiens nell'odierna Francia avvenne l'episodio più ricordato della vita del Santo: la condivisione del suo mantello con un povero.

Nel rigido inverno del 335 Martino incontrò un mendicante seminudo. Vedendolo sofferente, tagliò in due il suo mantello militare (la clamide bianca della guardia imperiale) e lo condivise con il mendicante. La notte seguente gli apparve in sogno Gesù rivestito della metà del suo mantello militare. Quando Martino si risvegliò il suo mantello era tornato miracolosamente integro.



Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi.
Il termine latino che indicava il mantello corto, cappella, venne, così, esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di San Martino (i cappellani, appunto) e da questi venne applicato all'oratorio reale chiamato cappella.
Secondo le tradizioni il sogno segnò profondamente Martino, che si fece battezzare ed abbracciò completamente la vita cristiana.
Terminato il periodo obbligatorio di servizio militare, a circa 40 anni lasciò l’esercito e si recò a Poitiers dal Vescovo Ilario.
L'ex soldato si impegno nella lotta all'eresia ariana (che era stata condannata dal Concilio di Nicea nel 325) e per questo venne perseguitato e scacciato sia dalla Francia, sia da Milano,dove si era rifugiato, poiché in tali luoghi vi erano stati eletti vescovi ariani.
Nel 357 Martino si trova in Liguria e precisamente sull'Isola Gallinara di fronte ad Albenga (SV) dove trascorre 4 anni come eremita.
Tornato a Poitiers ,nel 361 il Vescovo gli concesse di ritirarsi in un eremo a 8 chilometri dalla città, a Ligugé.
Nel 371 gli elettori riuniti a Tours lo eleggono Vescovo. A questo evento è legato il tradizionale cibo nordico della festa di San Martino, cioè l'oca. Secondo la leggenda, infatti, Martino era assai restio ad assumere tale carica e, pertanto, si nascose in una stalla con le oche. Le bestiole, però, fecero rumore, rivelando così il nascondiglio alle presone che lo stavano cercando.



Martino, comunque, assolse le funzioni episcopali con autorità e prestigio, senza però abbandonare le scelte monacali. Continuò a vivere come un eremita a tre chilometri dalla città. In questo ritiro, venne ben presto raggiunto da numerosi seguaci. Si creò, così, un monastero, denominato in latino Maius monasterium (monastero grande), in seguito noto come Marmoutier, di cui egli divenne abate e in cui impose una regola di povertà, di evangelizzazione e di preghiera.



Se da un lato Martino rifiutò il lusso e l’apparato di un dignitario della Chiesa, dall’altra non trascurò le sue funzioni episcopali. A Tours respinse sempre le visite di carattere mondano, ma, allo stesso tempo, si occupò dei prigionieri, dei condannati a morte, dei malati e dei morti, che guarì e, si dice, resuscitò. La leggenda tramanda che perfino i fenomeni naturali gli obbedivano.
Marmoutier, al termine del suo episcopato, conta 80 monaci, costituendo la prima comunità monastica in terra francese.
Il vescovo Martino morì l’8 novembre 397 a Candes-Saint-Martin, dove si era recato per mettere pace fra il clero locale.
I funerali si celebrarono a Tours 3 giorni dopo, l'11 novembre, e proprio tale data venne scelta come festa del Santo.
Divenne ben presto una festa straordinaria in tutto l'Occidente, grazie alla popolare fama di santità del vescovo e al numero notevole di cristiani che portavano il nome di Martino.

Martino è uno fra i primi santi non martiri proclamati dalla Chiesa e divenne il santo francese per eccellenza.

In Italia il culto del Santo è legato alla cosiddetta “estate di San Martino”, cioè un paio di giorni di tempo mite e soleggiato che si manifesta, in senso meteorologico, all'inizio di novembre e dà luogo ad alcune tradizionali feste popolari.
Una vecchia usanza prevedeva,infatti, che tutti, compresi i bambini, mangiassero le castagne e bevessero vino. Secondo alcuni storici questi festeggiamenti derivavano da una festa latina della durata di un mese che iniziava il 24 novembre (festa di Brumalia), e che venne, in seguito, rinominata dai cristiani Martinalia in onore appunto di San Martino ( vedi il libro “Storia di Vari costumi sacri e profani dagli Antichi fino a noi pervenuti” Padre Michelangelo Carmeli,1750).
La leggenda tramanda che la breve interruzione della morsa del freddo, si ripeta ogni anno per commemorare il gesto magnanimo e generoso del santo quando divise il suo mantello con il povero mendicante.



Il giorno dell’11 novembre coincideva inoltre con la fine delle celebrazioni del Capodanno dei Celti, il “Samuin”, che si svolgevano proprio nei primi dieci giorni del mese: il retaggio di questa festa pagana era ancora presente nell’Alto Medioevo, e la Chiesa sovrappose il culto cristiano del santo più amato dell’epoca alle tradizioni celtiche. Molte usanze di ascendenza precristiana sopravvissero così nel corso dei secoli, confluendo nelle celebrazioni di san Martino.
La festa di San Martino era una delle più importanti feste dell’anno, una sorta di capodanno contadino nel corso del quale si mangiava e beveva in abbondanza. Anticamente infatti il periodo di penitenza e digiuno che precede il Natale cominciava il 12 novembre e prendeva il nome di Quaresima di san Martino.
A incoraggiare il momento di baldoria era anche la conclusione delle attività agricole legate all’inizio dell’autunno, nonché il clima più mite che solitamente caratterizza queste giornate. In questo periodo inoltre occorreva finire il vino vecchio per pulire le botti e lasciarle pronte per la nuova annata, e al contempo si iniziava a bere il vino novello. L’atmosfera era simile a quella di un giovedì grasso, come ci testimonia il dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio dal titolo Il vino di San Martino: il popolo in festa si precipita a tracannare il vino nuovo, mentre sulla destra vediamo il santo a cavallo.



Nel veneziano l'11 novembre è usanza preparare il dolce di San Martino, un biscotto dolce di pasta frolla con la forma del Santo con la spada a cavallo, decorato con glassa di albume e zucchero ricoperta di confetti e caramelle.



A Palermo si preparano i biscotti di San Martino abbagnati nn'o muscatu (inzuppati nel vino moscato di Pantelleria), a forma di pagnottella rotonda grande come un'arancia e con l'aggiunta nell'impasto di semi d'anice (o finocchio selvatico) che conferisce loro un sapore e un profumo particolare.




In molte regioni d'Italia l'11 novembre è simbolicamente associato alla maturazione del vino nuovo (si ricordi il proverbio "A San Martino ogni mosto diventa vino") e questo diventava un'occasione di ritrovo e festeggiamenti.
Nel nord Italia, specialmente nelle aree agricole, fino a non molti anni fa tutti i contratti (di lavoro ma anche di affitto, mezzadria, ecc) avevano inizio e, conseguentemente anche fine l'11 novembre, data scelta proprio in quanto i lavori nei campi erano già terminati senza però che fosse già arrivato il clima rigido dell'inverno. Per questo, scaduti i contratti, chi aveva una casa in uso la doveva lasciare libera proprio l'11 novembre e non era inusuale, in quei giorni, imbattersi in carri strapieni di ogni masserizia che si spostavano da un podere all'altro, facendo "San Martino", nome con cui popolarmente si indicava tale trasloco.
Ancora oggi in molti dialetti e modi di dire del nord "fare San Martino" mantiene il significato di traslocare.



venerdì 3 novembre 2017

San Torpete: il santo che accomuna Pisa, Genova e la Provenza (ed a Genova ha una chiesa a lui dedicata)

San Torpete conosciuto anche come Torpè, Torpes, Torpezio, Tropezio, Tropez (nome latino Gaius Silvius Torpetius), è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. 
Fu martirizzato presso Pisa durante il regno dell'Imperatore Nerone

Gli Atti del martirio di S. Torpete e il Martirologio Romano costituiscono le uniche scarse fonti sulla figura di Torpete.

In realtà, al di là della tradizione leggendaria, di questo santo non sappiamo niente di certo, neppure quando è vissuto, perché i dati biografici e storici sono pressochè inesistenti. Probabilmente la sua leggenda è nata solo per giustificare la presenza del suo culto a Pisa fin dall’alto medioevo e fu retrodatata al tempo di Nerone, emblema dell’imperatore crudele primo grande persecutore dei cristiani.

San Torpè o Torpete era un soldato romano. Egli visse al tempo in cui Pietro apostolo, prima di raggiungere Roma, si fermò presso la Basilica di San Piero a Grado vicino all'odierna città di Pisa.
Torpè, convertitosi al Cristianesimo, fu battezzato dal religioso Antonio, eremita sui monti tra Pisa e Lucca.
Diventato cristiano, Torpete praticava di nascosto la nuova fede religiosa, il che non gli impediva di svolgere un ruolo importante presso l’amministrazione romana.
Tornato a Pisa, fu riconosciuto cristiano dal prefetto della città, Satellico, il quale tentò di riportarlo alla religione pagana. A nulla valsero i suoi sforzi: né le false promesse, né le torture convinsero Torpete a rinnegare la sua nuova fede e, quindi, fu martirizzato per decapitazione presso San Rossore il 29 aprile 68.
Dopo la sua morte, il corpo di Torpete fu abbandonato sopra un'imbarcazione, insieme ad un gallo e ad un cane, alla foce dell'Arno.
La barca si arenò nelle vicinanze di una piccola cittadina della Provenza chiamata Heraclea e ribattezzata Saint-Tropez in onore del Santo.
La testa del martire che era stata lasciata presso la foce dell’Arno, fu successivamente raccolta dai cristiani e collocata dapprima in una cappella eretta in suo onore in San Rossore, quindi in una seconda cappella in prossimità dell’attuale chiesa di San Ranierino, infine nell’attuale chiesa di San Torpè, presso i cosiddetti Bagni di Nerone, ruderi romani che probabilmente sono all'origine di tutta la Passio, costruita radunando luoghi comuni della tradizione martiriale.




Il santo pisano si distinse per alcuni segni prodigiosi: esemplare quello del 29 aprile 1633, quando liberò Pisa colpita da una gravissima peste.

Per ricordare il santo, tutti gli anni, il 29 aprile un gruppo di pellegrini francesi si reca a Pisa, mentre il 16 maggio una delegazione comunale pisana raggiunge Saint-Tropez per festeggiare il patrono della città.
La festa, chiamata Bravade, dura tre giorni e mostra la devozione degli abitanti di Saint-Tropez per il santo pisano.



Esistono tre principali chiese dedicate al santo martire pisano; esse si trovano a Pisa, a Genova e a Saint-Tropez.
A Pisa è presente la Chiesa e convento di San Torpé, in via Fedeli. 
Nel centro storico di Genova, invece, sorge la Chiesa di San Torpete.

Ma come si colloca la città di Genova all'interno di questa narrazione?

Il culto di San Torpete fu importato a Genova dai mercanti pisani che eressero in suo onore una chiesa nella piazza del mercato, non lontana dalla loggia che i Pisani possedevano nell’area curiale della famiglia di nobiltà mercantile dei Della Volta .

La famiglia dei Della Volta, infatti, già proprietaria dal X secolo di feudi nella Valbisagno, aveva la zona dell'antico Forum Sancti Georgii sotto la propria giurisdizione e nel 1150 decise di allearsi con la colonia pisana e favorirne l'insediamento: fu così che i pisani si aggiunsero all'antica nobiltà locale, ai fiorentini e ai lucchesi e cominciarono a gestire i propri traffici dalla loggia del forum.

La chiesa di san Torpete è con buon margine di certezza una delle parrocchie più antiche di Genova, poiché già nel 935 esistono notizie relative a una porta delle mura urbane dedicata al martire pisano.
La chiesa originale era edificata in stile romanico, con la facciata a bande bianche e nere rivolta a ponente secondo la consuetudine dell'epoca.
Dopo alcuni anni i Pisani la cedettero ai Della Volta (che in seguito avrebbero assunto il nome di Cattaneo), che ne fecero la propria chiesa gentilizia, ottenendone nel 1308 il giuspatronato, che conservano formalmente ancora oggi.
Nel 1180 avvenne la consacrazione da parte dell'arcivescovo Ugone Della Volta, come ricorda un'iscrizione collocata sopra la porta laterale della chiesa, che divenne il luogo di culto della comunità mercantile pisana di Genova per quasi due secoli.
Nel 1290 sulla facciata di questa chiesa, furono esposti alcuni anelli della catena del porto pisano, portati a Genova come trofeo dalla flotta di Corrado Doria che aveva forzato il porto della città rivale.  
Dopo i gravi danni causati dal bombardamento navale francese del 1684 vennero eseguiti alcuni restauri all'edificio medievale.
Circa cinquant'anni dopo, nel 1730, Cesare Cattaneo decise di ricostruire totalmente la chiesa.
Il progetto, affidato a Giovanni Antonio Ricca (detto il Gobbo) (1688-1748), fu realizzato tra il 1730 e il 1733.



Con la ricostruzione settecentesca fu attuato un radicale stravolgimento della struttura della chiesa medioevale: la facciata, che prima si apriva sul lato di ponente, venne spostata a quello settentrionale, prospiciente la piazza. Lo stile della facciata è barocco, con aggiunte posteriori neoclassiche (timpano, nicchie e paraste) realizzate intorno alla metà dell'Ottocento, periodo a cui appartiene anche la grande cupola ellittica, con copertura in scaglie d'ardesia.
L'interno, interamente coperto dalla cupola, è un unico vano a pianta ellittica.

La nuova chiesa, a pianta centrale e con un diverso orientamento, comprende tutta l'area della precedente più quella di una palazzina adiacente acquistata dai Cattaneo, sulle cui fondamenta fu realizzata la canonica. Al termine dei lavori, il 23 novembre 1733 la chiesa venne nuovamente consacrata ed in quella circostanza al titolo di S. Torpete fu aggiunto quello di Santa Maria Immacolata.



Tra le opere conservate al suo interno, nell'abside è collocato il dipinto San Torpete illeso tra le fiere di Giovanni Carlone (il quadro è l'unica opera all'interno della chiesa che raffigura il santo titolare), nella cappella di destra Madonna con bambino tra San Tommaso di Canterbury, Santa Lucia e San Giovanni Battista (fine del XVI secolo, incertamente attribuito ad Andrea Semino) e in quella di sinistra San Filippo Neri in estasi (attribuito alla scuola di Giovanni Battista Paggi, del XVII secolo).
Sull'altare maggiore è posto un crocifisso ligneo di anonimo scultore genovese (1790-1810).

San Torpete illeso tra le fiere

Madonna con bambino tra San Tommaso di Canterbury, Santa Lucia e San Giovanni Battista


In controfacciata è collocata una statua lignea policroma della Madonna della Provvidenza, di Giovanni Battista Drago (1854), rivestita con abiti ed ornamenti, un tempo oggetto di grande devozione col tempo abbandonata in favore del culto della Madonna della Guardia.



La chiesa è una delle poche a pianta centrale presenti a Genova.

La città di Genova, però, è strettamente collegata anche alla cittadina francese di Saint – Tropez.
L’erudito Luigi Tomaso Belgrano ricorda con orgoglio i forti legami esistenti con la comunità genovese:
Nell'anno 1470 Giovanni Cossa, luogotenente generale del re Renato in Provenza, concedette in feudo a Raffaello da Garessio la signoria del luogo di Saint-Tropez, allora deserto; ed il Garessio vi condusse dalla riviera ligustica ben sessanta famiglie, le quali edificaronvi il presente borgo ed una nuova chiesa in onore di quel santo.
L'origine adunque della moderna città di Saint-Tropez è cosa nostra; ed i suoi abitatori, con nobile compiacenza, ricordano tuttora i vincoli onde sono a noi collegati. Ne è prova la Società delle regate, ivi costituitasi nel 1862; la quale fondandosi appunto su questi legami, chiedeva per mezzo del Maire al nostro Municipio il dono di due stendardi, l'uno divisato ai colori nazionali e l'altro ornato della temuta croce dell'antica Repubblica Genovese, da distribuirsi in premio a coloro che avessero trionfato nelle solenni corse del 18 maggio 1864. Il Municipio assentiva di buon grado alla domanda; e spediva a Saint-Tropez due superbi vessilli, i quali venivano accolti da que' cittadini col più vivo trasporto, in mezzo alle grida di evviva alla Metropoli della Liguria.

(L.T.Belgrano, Della vita privata dei Genovesi, Genova 1875, p.48, n.3)

giovedì 2 novembre 2017

I dolcetti dei morti: una tradizione italiana

È tradizione in Europa e soprattutto in Italia preparare dolci particolari nei giorni a ridosso del 2 novembre (commemorazione dei Defunti), che spesso ricordano nel nome questa ricorrenza o nella forma e consistenza quella di un osso.
A cavallo tra l’1 e il 2 novembre la leggenda vuole che i defunti tornino a visitare il mondo dei vivi, i quali per nutrirli e salutarli ancora una volta preparano dei dolcetti.
Lungo la penisola italiana assumono nomi differenti ma tutti sono accomunati dalla semplicità degli ingredienti quali farina, uova, zucchero; spesso sono presenti anche mandorle finemente triturate, spezie o talvolta anche cioccolato.

Le fave da morto, o fave dei morti sono pasticcini alla mandorla, di forma ovoidale e schiacciata, cosparsi di zucchero a velo; hanno l'aspetto di un amaretto, ma presentano una consistenza maggiore Sono tipici di Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Marche ed Umbria.
Differenti, seppur sempre a base di mandorla, sono le Favette dei Morti, presenti soprattutto nel Nord-est, poiché sono dolci colorati con tre colori diversi (panna, marroni e rosa) e variano dal croccante al morbido.



Originariamente le fave dei morti erano dolcetti preparati con le fave secche triturate, questo ingrediente fu però sostituito dalle mandorle per via del favismo, una malattia genetica molto grave che può portare a crisi emolitiche e anemiche in caso di ingerimento del suddetto legume. Il nome, però, è rimasto invariato.
Già dai tempi dell'antica Roma, infatti, la pianta della fava è considerata un tramite tra la Terra e il mondo sotterraneo a causa delle sue lunghe radici che affondano nel terreno, al punto da diventare alimento sacro ai defunti.

Le Ossa di morto (dal piemontese os di mort) sono biscotti di consistenza abbastanza dura, con mandorle ed albume d'uovo (si trovano anche nelle Marche e in Lombardia).
Tipici di Parma sono invece dei biscotti di pastafrolla, ricoperti di glassa di zucchero o cioccolato, modellati a forma di osso stilizzato.



In Sicilia, invece secondo la versione originaria, le Ossa di morto sono di consistenza molto secca e di colore bianco e marrone. Sono dei biscotti che necessitano di una lunga preparazione poiché vengono lasciati all'aria coperti da un telo anche per tre giorni prima di essere cotti. Tra gli ingredienti, inoltre, vi è la presenza di spezie quali cannella e chiodi di garofano.
Una volta pronti per essere degustati si presentano composti da due parti di consistenza e colore diversi: la parte inferiore è scura e dura, mentre la parte superiore è bianca e friabilissima. Questa particolare caratteristica si ottiene grazie al processo di riposo dell’impasto



Questa è la mia versione dei dolcetti dei morti, ottenuta “unendo” assieme la preparazione tipica del nord Italia con il sapore speziato di biscotti siciliani

OSSA DI MORTO

Dosi per circa 50 – 60 biscotti

200 gr mandorle
200 gr zucchero
200 gr farina
3 – 4 chiodi di garofano
1 cucchiaino di cannella in polvere
1 albume
Scorza di 1 limone
Mezzo bicchiere di vino bianco aromatico

Ridurre in polvere i chiodi di garofano.
Triturare le mandorle con un po' di zucchero.
Aggiungere la farina, lo zucchero rimanente, i chiodi di garofano in polvere, la cannella, la scorza del limone grattugiata finemente e l'albume montato a neve ben ferma. Amalgamare bene tutti gli ingredienti (io ho usato la planetaria con la frusta a K) fino ad ottenere un impasto omogeneo. Preparare dei salsicciotti di pasta del diametro di circa 2 - 3 cm e tagliarli a pezzetti di circa 5 cm.
Ricavare i biscotti schiacciandoli lievemente con i rebbi di una forchetta.
Porli su una teglia rivestita con carta da forno e cuocere a 170°per circa 20 minuti.