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martedì 26 dicembre 2017

Il pranzo della vigilia: i pesci e l'anguilla fritti e marinati

Per le feste di Natale, a Piacenza era tradizione mangiare i pesciolini e le anguille fritte e marinate pescate nel fiume Po.
Gli stricc', o lasche (Chondrostoma genei), sono pesciolini del Po lunghi pochi centimetri che vivono nelle anse del fiume e si nutrono del poco che c’è. L'anguilla marinata, invece, in dialetto è detta büratëin (cioè burattino).

Nella mia famiglia, da sempre, questi piatti comparivano sulla tavola del pranzo della Vigilia di Natale, assieme ad un pinzimonio di verdure miste. Era un modo per mangiare qualcosa di magro, il pesce, in attesa della cena e del pranzo del giorno dopo.

Quest'anno, qui a Genova, non sono riuscito a reperire i pesciolini marinati e quindi ho pensato di provare a cucinarli io, seguendo le ricette tipiche.

Non sono riuscito a trovare i pesci di fiume, ovviamente, e nemmeno i latterini, quindi ho ripiegato su alcuni pesci misti per zuppa di dimensioni piccole.
Non ho trovato nemmeno l'anguilla, quindi ho utilizzato un grongo che, sia come sapore sia come consistenza delle carni, vi assomiglia molto.




Il risultato è stato, comunque, molto apprezzato dai commensali.
Una piccola precisazione: per la perfetta riuscita di questa ricetta sarebbe consigliabile acquistare dei pesci con poche lische, poichè queste devono essere poi scartate quando si mangiano.


PESCIOLINI FRITTI E MARINATI

Ingredienti per 4 persone

400 – 500 gr di pesci piccoli
Farina 0 q.b.
Olio per frittura
250 ml Aceto
4 spicchi aglio
sale q.b.
2 foglie alloro
Pepe q.b.

Pulire i pesci dalle interiora a lavarli sotto acqua corrente. Unire alla farina una presa di sale ed infarinarle molto bene i pesci.
Friggerli in abbondante olio fino a quando non saranno dorati e croccanti.
Asciugare l'eccesso di olio con carta da cucina.

I pesci dopo la frittura



Sminuzzare finemente 4 spicchi d'aglio e farli soffriggere in poco olio. Aggiungere l'aceto di vino bianco, l'alloro in foglie ed il pepe e lasciare sobbollire per circa 5 minuti.
Disporre i pesci in un recipiente di vetro a bordi alti, in modo che possano venir ricoperti dalla marinatura.
Aggiungere la marinatura, coprire il recipiente e consumare dopo almeno 24 h.

Dopo la marinatura di 24 h, pronti per essere mangiati



Si conservano per una settimana in un recipiente ben chiuso in frigorifero.



martedì 19 dicembre 2017

Col cavolo che si spreca in cucina! Gli involtini di cavolo verza con salsiccia e polenta

La verza (Brassica oleracea), anche detto cavolo verza, è un ortaggio tipicamente invernale noto fin dall’antichità per le sue proprietà medicinali.
Secondo un antico mito greco, il cavolo verza selvatico nacque dalle gocce sudate di Zeus ed era già utilizzata come pianta medicinale dai Greci stessi.
Gli Antichi Romani trovarono altre virtù di questo ortaggio: veniva usato come antidoto, o addirittura come trattamento preventivo per l’ubriachezza e come disinfettante in caso di ferite sotto forma di impacco.



Del cavolo verza non si butta via nulla, perfino le foglie esterne, alquanto fibrose possono essere riutilizzate in cucina per creare degli ottimi involtini ripieni.

La ricetta seguente è un tipico esempio di come sia possibile coniugare risparmio (in quanto gli ingredienti sono alquanto economici) e sapore in cucina.
Inoltre, è opportuno sottolineare che anche la polenta proviene da un “avanzo” di una cena precedente.
Ovviamente è anche possibile cucinarla “ex novo” per la ricetta, ma, a mio modesto parere, è meglio utilizzare la polenta del giorno prima.





Involtini di cavolo verza con salsiccia e polenta

Per 4 persone

1 verza
350 gr di salsiccia fresca
6 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
30 gr di burro
1 spicchio d'aglio
250 gr di farina di mais per polenta (macinata grossa)
1,5 l acqua
sale
olio extravergine d'oliva


Se decidete di riutilizzare la polenta avanzata dal giorno prima, tagliare 2 - 3 fette non troppo spesse. Non è necessario essere accurati in questa operazione, anzi, anche se la polenta si sbriciola va benissimo.
In alternativa, preparare la polenta facendo bollire l'acqua salata in una casseruola dai bordi alti. Versare la farina di mais a pioggia e mescolare per non far formare grumi.
Cuocere a fuoco medio per circa 45 minuti sempre continuando a mescolare ripetutamente con un cucchiaio di legno.
La polenta sarà pronta quando inizia a staccarsi dai bordi della casseruola.
Versare la polenta su un tagliere di legno e lasciarla intiepidire.

Lavare la verza e separare delicatamente le foglie. Scottarle in acqua bollente e salata per 5 minuti, quindi scolarle e farle asciugare su un canovaccio pulito.
Far cuocere in un padella la salsiccia spellata e ridotta a pezzettini con un filo d'olio extravergine e uno spicchio d'aglio.
Amalgamare la salsiccia con la polenta in una ciotola.

Dividere l'impasto così ottenuto sulle foglie di verza ed arrotolarle a formare un involtino. Tenere in forma con uno stuzzicadenti. 
Infornare gli involtini di verza a 180° per circa 5 minuti.


domenica 17 dicembre 2017

Noi di Piacenza… quelli che mangiano i tortelli con la coda

I tortelli tipici della provincia di Piacenza sono dei tortelli a forma di caramella. In dialetto, proprio per questa loro caratteristica vengono chiamati turteil cun la cuà, cioè tortelli con la coda.
A causa di questa loro forma alquanto insolita non possono essere fatti che a mano.
Il ripieno è costituito da ricotta, spinaci (o bietole) e un pizzico di noce moscata. Si possono quindi definire tortelli “di magro” perché al loro interno non c’è macinato né prosciutto né carne.
Durante la stagione estiva possono essere serviti con burro fuso, qualche foglia di salvia e una spolverata di grana padano grattugiato, in autunno, invece, sono accompagnati da un sugo prelibato, fatto con i pomodori e i funghi porcini.




I tortelli di Piacenza hanno alle spalle quasi settecento anni di storia e un’origine nobile: nacquero nella cucina del castello di Vigolzone di proprietà degli Anguissola, la famiglia che governò Piacenza dal XIV al XVII secolo. Fu una cuoca di corte a cucinarli per la prima volta, in un giorno non precisato del 1351, in onore di un ospite davvero illustre: Francesco Petrarca.
La donna, lavorando presso altre casate nobili d’Italia, aveva imparato la ricetta degli gnocchi di ricotta e bietole (diffusi ad esempio ad Alessandria col nome di rabaton o in Toscana con quello di gnudi) e decise di replicarla per stupire il grande poeta e scrittore.
Poichè all’epoca non esistevano le posate e gli gnocchi erano abbastanza scomodi da maneggiare, li racchiuse in una sottile sfoglia di pasta all’uovo, a cui diede la forma di un paffuto tortello intrecciato.

A Vigolzone i tortelli hanno ricevuto, nel 2006, la Denominazione Comunale di Origine, insieme ad un’altra specialità del posto, la squisita torta con i fichi freschi, nata nel XVII secolo nel convento dei padri Gesuiti della frazione di Albarola.


TORTELLI PIACENTINI

Dosi per circa 120 tortelli

Per la pasta all'uovo

500 gr farina
5 uova

Per il ripieno

400 gr ricotta
2 uova
2 mazzi di bietole fresche
200 gr Parmigiano Reggiano grattugiato
noce moscata q.b.
sale

Preparare l'impasto facendo appassire in un tegame le bietole con una spruzzata di sale per circa 5 – 6 minuti.
Strizzarle e tritarle molto finemente con la mezzaluna.
Amalgamare il trito così ottenuto con le uova, la ricotta, il formaggio e un poco di noce moscata.
Preparare l'impasto per la pasta all'uovo e tirare una sfoglia sottile. Dividerla in strisce di circa otto cm. e ricavarne tanti rettangolini.
Su ogni riquadro mettere un cucchiaino di ripieno. Ripiegare la pasta chiudendo il tortello a triangolo, poi girare i due angoli e formare una treccia o meglio due code ben strette e sottili arricciandole tra il pollice il medio e l'indice. 



Metterli a riposare su una spianatoia di legno spruzzata di farina fino al momento di cuocerli.
Cuocere i tortelli in acqua bollente salata. 
Scolare i tortelli in una zuppiera di ceramica e versarvi sopra il condimento (burro alla salvia oppure sugo di funghi).




mercoledì 13 dicembre 2017

La Santa della luce: Santa Lucia

Una decina di giorni prima di Natale , si celebra in diverse parti d'Italia, ma anche d'Europa, Santa Lucia, santa diventata molto popolare per una serie di circostanze non tanto dovute alla sua figura storica ma in quanto in collegamento con il simbolismo sostiziale.

Lucia è effettivamente stata una martire cristiana, morta durante le persecuzioni di Diocleziano a Siracusa nel 304. Gli episodi della sua vita sono riportati da due passiones, la prima greca e la seconda latina.
Entrambe le versioni sono, probabilmente, poco rispondenti alla verità storica, in particolar modo quella latina, infarcita di leggende come era usanza per le altre vite di santi dei primi secoli.
Secondo la fonte greca, Lucia era una giovane e ricca siracusana, fidanzata con un concittadino.
Durante un pellegrinaggio al sepolcro della martire Agata a Catania, intrapreso per chiedere la guarigione della madre malata, la santa apparve alla giovane.
Nella visione Agata preannunciava a Lucia anche il suo martirio e il patronato sulla sua città natale. Ritornata a Siracusa e constatata la guarigione della madre, Lucia annuciò la sua ferma decisione di consacrarsi a Cristo e di donare tutti i suoi averi ai poveri. Il pretendente, insospettito e preoccupato nel vedere la sposa donare tutto il suo patrimonio, e, dopo aver verificato il rifiuto di Lucia alle nozze, la denunciò come cristiana. Erano, infatti, in vigore i decreti di persecuzione dei cristiani emanati dall'imperatore Diocleziano.
In tribunale il giudice non riuscì a far abiurare la giovane, né con le lusinghe, né con le minacce. Venne quindi condannata ad essere esposta tra le prostitute, ma quando i soldati si apprestarono a condurla via, si accorsero che Lucia era diventata pesante e irremovibile come una roccia. Nemmeno una coppia di buoi riuscì a smuoverla.
Lucia allora fu sottoposta al supplizio del fuoco, ma ne rimase totalmente illesa, infine fu condannata a morte per decapitazione o, secondo le fonti latine, per jugulatio (cioè sgozzamento mediante pugnale).



La sua festa liturgica ricorre il 13 dicembre, giorno del suo martirio.
Antecedentemente all'introduzione del calendario gregoriano (1582), la festa della Santa cadeva in prossimità del solstizio d'inverno (da cui il detto "santa Lucia il giorno più corto che ci sia"), ma non vi coincise più con l'adozione del nuovo calendario (differenza di 10 giorni).
La celebrazione della festa in un giorno vicino al solstizio d'inverno è probabilmente dovuta alla volontà cristiana di sostituire antiche feste pagane che celebravano il ritorno della luce.
Il culto di santa Lucia infatti presenta diverse affinità con il culto di Artemide, l'antica divinità greca venerata a Siracusa nell'isola di Ortigia. Ad Artemide, come a santa Lucia, sono sacre la quaglia e l'isola di Ortigia. Artemide e Lucia sono entrambe vergini. Artemide è inoltre vista anche come dea della luce mentre stringe in mano due torce accese e fiammeggianti.
La santa siracusana era perfetta per sostituire queste tradizioni pagane. Il suo nome evocava la luce: deriva, infatti dal latino Lùcia, la cui radice è proprio lux, cioè luce.
Nel periodo storico in cui la sua festa coincise con il periodo sostiziale, la sua figura divenne anche promessa e segno di luce materiale, divenne cioè annunciatrice della fine delle tenebre invernali e dei futuri giorni più chiari.
In tal senso si colloca , quindi, il suo patronato sulla vista e su tutto ciò che è connesso con la luce. Per meglio rafforzare questa tradizione ed estirpare completamente tutti i culti pagani dei “portatori di luce”, un agiografo sconosciuto ha aggiunto alla passio di Lucia un episodio probabilmente mai avvenuto.
La giovane, infatti, per non cedere alle suppliche del fidanzato, si sarebbe strappata gli occhi.
Nell'iconografia cristiana, quindi, Lucia appare con vari attributi connessi sia al suo martirio, come la palma ed il pugnale o spada che la trafisse, sia al suo ruolo di “messaggera di luce” come la lampada (simbolo che richiama la dea Artemide) ed il piattino recanti i suoi occhi.




Alla festa di Santa Lucia sono connesse molte usanze, come quella di non mangiare il pane o farinacei il 13 dicembre, in ricordo della carestia che affamò la Sicilia nel XVII secolo e che fu risolta, si dice, proprio dall'intervento della santa che convogliò nei porti una flotta di navi cariche di frumento.
A Palermo, ad esempio, si mangia la cuccìa, un piatto a base di chicchi di frumento messi a macerare il giorno precedente.



Il culto della santa si è diffuso, a partire dal medioevo, soprattutto nell'Italia del nord ed in Europa.
Nel Veneto, Lombardia e in Emilia Romagna, in particolare in provincia di Piacenza, esiste una tradizione legata ai "doni di santa Lucia", figura omologa dei vari San Nicola, Babbo Natale, Gesù Bambino, Befana e altri che, durante i secoli, hanno sostituito l'antico culto degli avi nell'immaginario infantile.
Leggenda vuole che quando la giovane Santa Lucia salì in Paradiso fosse molto triste, ragion per cui San Pietro le concesse di tornare sulla Terra in groppa ad un asinello per una notte all'anno, quella tra il 12 ed il 13 dicembre, e di portare con sé doni per tutti i bambini. In cambio a Lucia vengono lasciati mandarini e biscotti e al suo asinello fieno e zuppa.



In Svezia, Lucia è molto venerata, sia dalla chiesa cattolica, che da quella luterana. I bambini preparano biscotti e dolciumi (tra questi, delle focaccine allo zafferano e all'uvetta chiamate lussekatter) a partire dal 12 dicembre. La mattina del 13, la figlia maggiore della famiglia si alza ancor prima dell'alba e si veste con un lungo abito bianco legato in vita da una cintura rossa, a ricordo del sangue versato dalla martire; la testa è ornata da una corona di foglie e da sette candele utili per vedere chiaramente nel buio. Le sorelle, che indossano una camicia bianca, simboleggiano le stelle. I maschi indossano cappelli di paglia e portano lunghi bastoni decorati con stelline.
La bambina vestita come santa Lucia sveglia gli altri membri della famiglia e serve loro i biscotti cucinati il giorno precedente.



Il nome di questi dolcetti allo zafferano pare che significhi “gatti di Lucifero” e non di Lucia, come si sarebbe portati a credere. Si tramanda, infatti, una leggenda di origini tedesche secondo la quale il diavolo, assunte le sembianze di un gatto, usava maltrattare e picchiare i bambini cattivi; quelli buoni, al contrario venivano premiati da Gesù proprio con questi biscotti a forma di esse.




Ogni anno, inoltre, viene eletta la Lucia di Svezia che raggiungerà la città siciliana di Siracusa per partecipare alla processione dell'ottava, in cui il simulacro di santa Lucia viene ricondotto in Duomo con una enorme processione accompagnata da fuochi d'artificio, che esprimono perfettamente il carattere della festa all'insegna della luce.

mercoledì 6 dicembre 2017

Anolini di Natale: una ricetta tradizionale dell'Antico Ducato di Parma e Piacenza

Gli anolini sono una tipologia di pasta ripiena originaria dei territori dell'antico Ducato di Parma e Piacenza.
Si tratta, ovviamente, di un piatto con radici antiche, tramandato da generazioni nelle famiglie dell'Emilia. 
La tradizione vuole che durante la vigilia di Natale la famiglia si riunisca per la preparazione degli anolini di Natale o anvëin d' Nadäl come sono definiti nel Piacentino.
E’ un piatto ricco ed elaborato, come del resto molti piatti proposti nelle festività importanti, ma l'insieme degli ingredienti ne fa un piatto raffinato.
Sono preparati disponendo palline di un ripieno formato da stracotto, uova e formaggio su una sfoglia di pasta ripiegata su se stessa. Si taglia attorno al ripieno con appositi stampini metallici, che possono essere circolari o con bordi seghettati; la pressione dello stampo salda assieme i bordi della sfoglia.




Il termine deriverebbe dal latino anulus ossia anello. Nasce come raviolo o pasta ripiena nel XII secolo, come riporta Salimbene De Adam nella sua Cronica del 1284.
Nel XVI secolo Bartolomeo Scappi li cita come piatto che compare sulle mense dei re e dei papi.
Nel 1536,infatti, mentre era al sevizio del Cardinale Lorenzo Campeggi, la prima ricetta scritta degli anolini compare nella sua Opera letteraria di cucina.
Alla corte del Duca Ranuccio Il Farnese nel 1659 sono descritti come un piatto cucinato con ripieno di formaggio Parmigiano e carne di cappone.
Più tardi, anche alla corte di Maria Luigia Duchessa di Parma e Piacenza (1791-1847) si mangiavano gli anolini e si collega ad essa la frase "Solo al re Anolino la Duchessa porge il suo inchino".


La tradizione degli anolini si ritrova sia in provincia di Piacenza sia di Parma. In dialetto piacentino sono detti anvëin, mentre in parmigiano anolén. Esiste anche una ricetta della provincia di Cremona nota come marubini (o in cremonese marubén).
La variante piacentina, è leggermente più piccola ed è a forma di mezzaluna seghettata, mentre nel parmense sono più grandi, rotondi e con bordi lisci.
Il bordo seghettato possiede il vantaggio di avere una quantità maggiore di sfoglia a parità di ripieno e una tenuta migliore della chiusura rispetto a quello liscio.




In Val d'Arda è invece diffusa una variante che non contempla la presenza della carne nel ripieno, una versione più magra quindi, composta solo da Grana Padano molto stagionato e pane grattugiato.

Su proposta della Regione Emilia-Romagna il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha riconosciuto gli anolini come uno dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani tipici delle province di Piacenza e di Parma con due voci distinte,proprio per tutelare le differenti ricette, affiancate dalla traduzione nei rispettivi dialetti


ANOLINI

Dose per circa 300 anolini

Per il ripieno
250 gr pan grattato (possibilmente casalingo)
250 gr Parmigiano Reggiano grattuggiato (stagionatura 36 mesi)
noce moscata q.b.
3 uova
sale q.b.
250 gr di stracotto

Per lo stracotto
100 gr di polpa di manzo
100 gr di polpa di maiale
50 gr di polpa di cavallo
1 gamba di sedano
1 carota
1 cipolla
1 foglia d'alloro
qualche bacca di ginepro
2 – 3 chiodi di garofano
1 bicchiere di vino rosso

Per la pasta

800 gr farina O
8 uova


Preparare dapprima lo stracotto.
Tagliare a dadolata il sedano e la carota. Infilzare la cipolla con i chiodi di garofano.
In un tegame di coccio far rosolare le carni con le verdure ed un filo d'olio extravergine d'oliva.
Aggiungere il bicchiere di vino, un presa di sale, la foglia d'alloro e le bacche di ginepro.
Incoperchiare e far sobbollire per almeno 2 – 3 ore .
Controllare il livello dei liquidi e, se necessario aggiungere un po' di acqua.
A cottura ultimata la carne dovrà essere molto morbida.
Tritare finemente lo stracotto, mentre con il sugo rimasto bagnare il pane grattugiato ed unirlo, a sua volta, allo stracotto stesso, insieme alle uova, al formaggio ed alla noce moscata.
Lavorare fino ad ottenere un impasto omogeneo.
Preparare la pasta e tirare una sfoglia sottile;
Disporre su di un lato di essa tante palline di ripieno (grandi circa come un cucchiaino da caffè) distanti 2 – 3 cm l'una dall'altra.



Ripiegare la pasta su se stessa e premere intorno al ripieno in modo da far uscire l'aria e da assicurare la massima coesione durante la cottura. 
Tagliare gli anolini con l'apposita forma rotonda e seghettata.
Cuocere gli anolini in un brodo preparato con cappone, manzo e vitello.

Anolini e tradizionale attrezzo per tagliarli



Una piccola annotazione finale. Gli anolini richiederebbero per la cottura il “brodo di quarta” o “di terza”, vale a dire un brodo preparato rispettivamente con quattro o con tre tipi di carni.
Tradizionalmente il brodo “di quarta” era preparato con pollo, manzo, bue grasso e costoletta di maiale, mentre quello “di terza” con cappone, manzo e costine di maiale.

Poichè risultano per entrambe le versioni dei brodi molto saporiti ma anche molto grassi, nella mia famiglia si è sempre sostituta la carne di maiale con la carne di vitello, in modo da ottenere un brodo un po' più leggero.