BUON 2018
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domenica 31 dicembre 2017
martedì 26 dicembre 2017
Il pranzo della vigilia: i pesci e l'anguilla fritti e marinati
Per le feste di Natale, a Piacenza era tradizione mangiare i
pesciolini e le anguille fritte e marinate pescate nel fiume Po.
Gli stricc', o lasche (Chondrostoma genei), sono pesciolini
del Po lunghi pochi centimetri che vivono nelle anse del fiume e si
nutrono del poco che c’è. L'anguilla marinata, invece, in dialetto
è detta büratëin
(cioè burattino).
Nella mia famiglia, da sempre, questi piatti comparivano sulla tavola
del pranzo della Vigilia di Natale, assieme ad un pinzimonio di
verdure miste. Era un modo per mangiare qualcosa di magro, il pesce,
in attesa della cena e del pranzo del giorno dopo.
Quest'anno, qui a Genova, non sono riuscito a reperire i pesciolini
marinati e quindi ho pensato di provare a cucinarli io, seguendo le
ricette tipiche.
Non sono riuscito a trovare i pesci di fiume, ovviamente, e nemmeno i
latterini, quindi ho ripiegato su alcuni pesci misti per zuppa di
dimensioni piccole.
Non ho trovato nemmeno l'anguilla, quindi ho utilizzato un grongo
che, sia come sapore sia come consistenza delle carni, vi assomiglia
molto.
Il risultato è stato, comunque, molto apprezzato dai commensali.
Una piccola precisazione: per la perfetta riuscita di questa ricetta
sarebbe consigliabile acquistare dei pesci con poche lische, poichè
queste devono essere poi scartate quando si mangiano.
PESCIOLINI FRITTI E MARINATI
Ingredienti per 4 persone
400 – 500 gr di pesci piccoli
Farina 0 q.b.
Olio per frittura
250 ml Aceto
4 spicchi aglio
sale q.b.
2 foglie alloro
Pepe q.b.
Pulire i pesci dalle interiora a lavarli sotto acqua corrente. Unire
alla farina una presa di sale ed infarinarle molto bene i pesci.
Friggerli in abbondante olio fino a quando non saranno dorati e
croccanti.
Asciugare l'eccesso di olio con carta da cucina.
I pesci dopo la frittura |
Sminuzzare finemente 4 spicchi d'aglio e farli soffriggere in poco
olio. Aggiungere l'aceto di vino bianco, l'alloro in foglie ed il
pepe e lasciare sobbollire per circa 5 minuti.
Disporre i pesci in un recipiente di vetro a bordi alti, in modo che
possano venir ricoperti dalla marinatura.
Aggiungere la marinatura, coprire il recipiente e consumare dopo
almeno 24 h.
Dopo la marinatura di 24 h, pronti per essere mangiati |
Si conservano per una settimana in un recipiente ben chiuso in
frigorifero.
martedì 19 dicembre 2017
Col cavolo che si spreca in cucina! Gli involtini di cavolo verza con salsiccia e polenta
La verza (Brassica oleracea), anche detto cavolo verza, è un
ortaggio tipicamente invernale noto fin dall’antichità per le sue
proprietà medicinali.
Secondo un antico mito greco, il cavolo verza selvatico nacque dalle
gocce sudate di Zeus ed era già utilizzata come pianta medicinale
dai Greci stessi.
Gli Antichi Romani trovarono altre virtù di questo ortaggio: veniva
usato come antidoto, o addirittura come trattamento preventivo per
l’ubriachezza e come disinfettante in caso di ferite sotto forma di
impacco.
Del cavolo verza non si butta via nulla, perfino le foglie esterne,
alquanto fibrose possono essere riutilizzate in cucina per creare
degli ottimi involtini ripieni.
La ricetta seguente è un tipico esempio di come sia possibile
coniugare risparmio (in quanto gli ingredienti sono alquanto
economici) e sapore in cucina.
Inoltre, è opportuno sottolineare che anche la polenta proviene da
un “avanzo” di una cena precedente.
Ovviamente è anche possibile cucinarla “ex novo” per la ricetta,
ma, a mio modesto parere, è meglio utilizzare la polenta del giorno
prima.
Involtini
di cavolo verza con salsiccia e polenta
Per
4 persone
1
verza
350
gr di salsiccia fresca
6
cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
30
gr di burro
1
spicchio d'aglio
250
gr di farina di mais per polenta (macinata grossa)
1,5
l acqua
sale
olio
extravergine d'oliva
Se
decidete di riutilizzare la polenta avanzata dal giorno prima,
tagliare 2 - 3 fette non troppo spesse. Non è necessario essere
accurati in questa operazione, anzi, anche se la polenta si sbriciola va
benissimo.
In
alternativa, preparare la polenta facendo bollire l'acqua salata in
una casseruola dai bordi alti. Versare la farina di mais a pioggia e
mescolare per non far formare grumi.
Cuocere
a fuoco medio per circa 45 minuti sempre continuando a mescolare
ripetutamente con un cucchiaio di legno.
La
polenta sarà pronta quando inizia a staccarsi dai bordi della
casseruola.
Versare
la polenta su un tagliere di legno e lasciarla intiepidire.
Lavare
la verza e separare delicatamente le foglie. Scottarle in acqua
bollente e salata per 5 minuti, quindi scolarle e farle asciugare su
un canovaccio pulito.
Far
cuocere in un padella la salsiccia spellata e ridotta a pezzettini
con un filo d'olio extravergine e uno spicchio d'aglio.
Amalgamare
la salsiccia con la polenta in una ciotola.
Dividere
l'impasto così ottenuto sulle foglie di verza ed arrotolarle a
formare un involtino. Tenere in forma con uno stuzzicadenti.
Infornare gli involtini di verza a 180° per circa 5 minuti.
domenica 17 dicembre 2017
Noi di Piacenza… quelli che mangiano i tortelli con la coda
I
tortelli tipici della provincia di Piacenza sono dei tortelli a forma
di caramella. In dialetto, proprio per questa loro caratteristica
vengono chiamati turteil cun la cuà,
cioè tortelli con la coda.
A
causa di questa loro forma alquanto insolita non possono essere fatti
che a mano.
Il
ripieno è costituito da ricotta, spinaci (o bietole) e un pizzico di
noce moscata. Si possono quindi definire tortelli “di magro”
perché al loro interno non c’è macinato né prosciutto né carne.
Durante
la stagione estiva possono essere serviti con burro fuso, qualche
foglia di salvia e una spolverata di grana padano grattugiato, in
autunno, invece, sono accompagnati da un sugo prelibato, fatto con i
pomodori e i funghi porcini.
I
tortelli di Piacenza hanno alle spalle quasi
settecento anni di storia
e un’origine nobile: nacquero nella cucina del castello di
Vigolzone di proprietà degli Anguissola, la famiglia che governò
Piacenza dal XIV al XVII secolo. Fu una cuoca di corte a cucinarli
per la prima volta, in un giorno non precisato del 1351, in onore di
un ospite davvero illustre: Francesco
Petrarca.
La
donna, lavorando presso altre casate nobili d’Italia, aveva
imparato la ricetta degli gnocchi di ricotta e bietole (diffusi ad
esempio ad Alessandria col nome di rabaton
o in Toscana con quello di gnudi) e
decise di replicarla per stupire il grande poeta e scrittore.
Poichè
all’epoca non esistevano le posate e gli gnocchi erano abbastanza
scomodi da maneggiare, li racchiuse in una sottile sfoglia di pasta
all’uovo, a cui diede la forma di un paffuto tortello intrecciato.
A
Vigolzone i tortelli hanno ricevuto, nel 2006, la Denominazione
Comunale di Origine, insieme ad un’altra specialità del posto, la
squisita torta con i fichi freschi, nata nel XVII secolo nel convento
dei padri Gesuiti della frazione di Albarola.
TORTELLI
PIACENTINI
Dosi
per circa 120 tortelli
Per
la pasta all'uovo
500
gr farina
5
uova
Per
il ripieno
400
gr ricotta
2
uova
2
mazzi di bietole fresche
200
gr Parmigiano Reggiano grattugiato
noce
moscata q.b.
sale
Preparare
l'impasto facendo appassire in un tegame le bietole
con una spruzzata di sale per circa 5 – 6 minuti.
Strizzarle
e tritarle molto finemente con la mezzaluna.
Amalgamare
il trito così ottenuto
con le uova, la ricotta, il formaggio e un poco di noce moscata.
Preparare
l'impasto per la pasta all'uovo e tirare una sfoglia sottile.
Dividerla in strisce di circa otto cm. e ricavarne tanti
rettangolini.
Su
ogni riquadro mettere un cucchiaino di ripieno. Ripiegare
la pasta chiudendo il tortello a triangolo, poi girare i due angoli e
formare una treccia o meglio due code ben strette e sottili
arricciandole tra il pollice il medio e l'indice.
Metterli
a riposare su una spianatoia di legno spruzzata di farina fino al
momento di cuocerli.
Cuocere
i tortelli in acqua bollente salata.
Scolare i tortelli in una
zuppiera di ceramica e versarvi sopra il condimento (burro alla
salvia oppure sugo di funghi).
mercoledì 13 dicembre 2017
La Santa della luce: Santa Lucia
Una
decina di giorni prima di Natale , si celebra in diverse parti
d'Italia, ma anche d'Europa, Santa Lucia, santa diventata molto
popolare per una serie di circostanze non tanto dovute alla sua
figura storica ma in quanto in collegamento con il simbolismo
sostiziale.
Lucia
è effettivamente stata una martire cristiana, morta durante le
persecuzioni di Diocleziano a Siracusa nel 304. Gli episodi della sua
vita sono riportati da due passiones, la prima greca e la
seconda latina.
Entrambe
le versioni sono, probabilmente, poco rispondenti alla verità
storica, in particolar modo quella latina, infarcita di leggende come
era usanza per le altre vite di santi dei primi secoli.
Secondo
la fonte greca, Lucia era una giovane e ricca siracusana, fidanzata
con un concittadino.
Durante
un pellegrinaggio al sepolcro della martire Agata a Catania,
intrapreso per chiedere la guarigione della madre malata, la santa
apparve alla giovane.
Nella
visione Agata preannunciava a Lucia anche il suo martirio e il
patronato sulla sua città natale. Ritornata a Siracusa e constatata
la guarigione della madre, Lucia annuciò la sua ferma decisione di
consacrarsi a Cristo e di donare tutti i suoi averi ai poveri. Il
pretendente, insospettito e preoccupato nel vedere la sposa donare
tutto il suo patrimonio, e, dopo aver verificato il rifiuto di Lucia
alle nozze, la denunciò come cristiana. Erano, infatti, in vigore i
decreti di persecuzione dei cristiani emanati dall'imperatore
Diocleziano.
In
tribunale il giudice non riuscì a far abiurare la giovane, né con
le lusinghe, né con le minacce. Venne quindi condannata ad essere
esposta tra le prostitute, ma quando i soldati si apprestarono a
condurla via, si accorsero che Lucia era diventata pesante e
irremovibile come una roccia. Nemmeno una coppia di buoi riuscì a
smuoverla.
Lucia
allora fu sottoposta al supplizio del fuoco, ma ne rimase totalmente
illesa, infine fu condannata a morte per decapitazione o, secondo le
fonti latine, per jugulatio (cioè sgozzamento mediante
pugnale).
La
sua festa liturgica ricorre il 13 dicembre, giorno del suo martirio.
Antecedentemente
all'introduzione del calendario gregoriano (1582), la festa della
Santa cadeva in prossimità del solstizio d'inverno (da cui il detto
"santa Lucia il giorno più corto che ci sia"), ma non vi
coincise più con l'adozione del nuovo calendario (differenza di 10
giorni).
La
celebrazione della festa in un giorno vicino al solstizio d'inverno è
probabilmente dovuta alla volontà cristiana di sostituire antiche
feste pagane che celebravano il ritorno della luce.
Il
culto di santa Lucia infatti presenta diverse affinità con il culto
di Artemide, l'antica divinità greca venerata a Siracusa nell'isola
di Ortigia. Ad Artemide, come a santa Lucia, sono sacre la quaglia e
l'isola di Ortigia. Artemide e Lucia sono entrambe vergini. Artemide
è inoltre vista anche come dea della luce mentre stringe in mano due
torce accese e fiammeggianti.
La
santa siracusana era perfetta per sostituire queste tradizioni
pagane. Il suo nome evocava la luce: deriva, infatti dal latino
Lùcia,
la cui radice è proprio lux,
cioè luce.
Nel
periodo storico in cui la sua festa coincise con il periodo
sostiziale, la sua figura divenne anche promessa e segno di luce
materiale, divenne cioè annunciatrice della fine delle tenebre
invernali e dei futuri giorni più chiari.
In
tal senso si colloca , quindi, il suo patronato sulla vista e
su tutto ciò che è connesso con la luce. Per meglio rafforzare
questa tradizione ed estirpare completamente tutti i culti pagani dei
“portatori di luce”, un agiografo sconosciuto ha aggiunto alla
passio di Lucia un episodio probabilmente mai avvenuto.
La
giovane, infatti, per non cedere alle suppliche del fidanzato, si
sarebbe strappata gli occhi.
Nell'iconografia
cristiana, quindi, Lucia appare con vari attributi connessi sia al
suo martirio, come la palma ed il pugnale o spada che la trafisse,
sia al suo ruolo di “messaggera di luce” come la lampada
(simbolo che richiama la dea Artemide) ed il piattino recanti i
suoi occhi.
Alla
festa di Santa Lucia sono connesse molte usanze, come quella di non
mangiare il pane o farinacei il 13 dicembre, in ricordo della
carestia che affamò la Sicilia nel XVII secolo e che fu risolta, si
dice, proprio dall'intervento della santa che convogliò nei porti
una flotta di navi cariche di frumento.
A
Palermo, ad esempio, si mangia la cuccìa, un piatto a
base di chicchi di frumento messi a macerare il giorno precedente.
Il
culto della santa si è diffuso, a partire dal medioevo, soprattutto
nell'Italia del nord ed in Europa.
Nel
Veneto, Lombardia e in Emilia
Romagna, in
particolare in provincia di Piacenza,
esiste una tradizione legata ai "doni di santa Lucia",
figura omologa dei vari San Nicola, Babbo Natale, Gesù Bambino,
Befana e altri che, durante i secoli, hanno sostituito l'antico culto
degli avi nell'immaginario infantile.
Leggenda
vuole che quando la giovane Santa Lucia salì in Paradiso fosse molto
triste, ragion per cui San Pietro le concesse di tornare sulla Terra
in groppa ad un asinello per una notte all'anno, quella tra il 12 ed
il 13 dicembre, e di portare con sé doni per tutti i bambini. In
cambio a Lucia vengono lasciati mandarini e biscotti e al suo
asinello fieno e zuppa.
In
Svezia, Lucia è molto venerata, sia dalla chiesa cattolica, che
da quella luterana. I bambini preparano biscotti e dolciumi (tra
questi, delle focaccine allo zafferano e all'uvetta chiamate
lussekatter) a partire dal 12 dicembre. La mattina del
13, la figlia maggiore della famiglia si alza ancor prima dell'alba e
si veste con un lungo abito bianco legato in vita da una cintura
rossa, a ricordo del sangue versato dalla martire; la testa è ornata
da una corona di foglie e da sette candele utili per vedere
chiaramente nel buio. Le sorelle, che indossano una camicia bianca,
simboleggiano le stelle. I maschi indossano cappelli di paglia e
portano lunghi bastoni decorati con stelline.
La
bambina vestita come santa Lucia sveglia gli altri membri della
famiglia e serve loro i biscotti cucinati il giorno precedente.
Il
nome di questi dolcetti allo zafferano pare che significhi “gatti
di Lucifero” e non di Lucia, come si sarebbe portati a credere. Si
tramanda, infatti, una leggenda di origini tedesche secondo la quale
il diavolo, assunte le sembianze di un gatto, usava maltrattare e
picchiare i bambini cattivi; quelli buoni, al contrario venivano
premiati da Gesù proprio con questi biscotti a forma di esse.
Ogni
anno, inoltre, viene eletta la Lucia di Svezia che raggiungerà la
città siciliana di Siracusa per partecipare alla processione
dell'ottava, in cui il simulacro di santa Lucia viene ricondotto in
Duomo con una enorme processione accompagnata da fuochi d'artificio,
che esprimono perfettamente il carattere della festa all'insegna
della luce.
mercoledì 6 dicembre 2017
Anolini di Natale: una ricetta tradizionale dell'Antico Ducato di Parma e Piacenza
Gli anolini sono una
tipologia di pasta ripiena originaria dei territori dell'antico
Ducato di Parma e Piacenza.
Si tratta,
ovviamente, di un piatto con radici antiche, tramandato da
generazioni nelle famiglie dell'Emilia.
La tradizione vuole che
durante la vigilia di Natale la famiglia si riunisca per la
preparazione degli anolini di Natale o anvëin d' Nadäl come
sono definiti nel Piacentino.
E’ un piatto ricco
ed elaborato, come del resto molti piatti proposti nelle festività
importanti, ma l'insieme degli ingredienti ne fa un piatto raffinato.
Sono preparati
disponendo palline di un ripieno formato da stracotto, uova e
formaggio su una sfoglia di pasta ripiegata su se stessa. Si taglia
attorno al ripieno con appositi stampini metallici, che possono
essere circolari o con bordi seghettati; la pressione dello stampo
salda assieme i bordi della sfoglia.
Il termine
deriverebbe dal latino anulus ossia anello. Nasce come raviolo
o pasta ripiena nel XII secolo, come riporta Salimbene De Adam nella
sua Cronica del 1284.
Nel XVI secolo
Bartolomeo Scappi li cita come piatto che compare sulle mense dei re
e dei papi.
Nel 1536,infatti,
mentre era al sevizio del Cardinale Lorenzo Campeggi, la prima
ricetta scritta degli anolini compare nella sua Opera letteraria
di cucina.
Alla corte del Duca
Ranuccio Il Farnese nel 1659 sono descritti come un piatto cucinato
con ripieno di formaggio Parmigiano e carne di cappone.
Più tardi, anche
alla corte di Maria Luigia Duchessa di Parma e Piacenza (1791-1847)
si mangiavano gli anolini e si collega ad essa la frase "Solo al
re Anolino la Duchessa porge il suo inchino".
La tradizione degli
anolini si ritrova sia in provincia di Piacenza sia di Parma. In
dialetto piacentino sono detti anvëin, mentre in parmigiano
anolén. Esiste anche una ricetta della provincia di Cremona
nota come marubini (o in cremonese marubén).
La variante
piacentina, è leggermente più piccola ed è a forma di mezzaluna
seghettata, mentre nel parmense sono più grandi, rotondi e con bordi
lisci.
Il bordo seghettato
possiede il vantaggio di avere una quantità maggiore di sfoglia a
parità di ripieno e una tenuta migliore della chiusura rispetto a
quello liscio.
In Val d'Arda è
invece diffusa una variante che non contempla la presenza della carne
nel ripieno, una versione più magra quindi, composta solo da Grana
Padano molto stagionato e pane grattugiato.
Su proposta della
Regione Emilia-Romagna il Ministero delle Politiche Agricole,
Alimentari e Forestali ha riconosciuto gli anolini come uno dei
prodotti agroalimentari tradizionali italiani tipici delle province
di Piacenza e di Parma con due voci distinte,proprio per tutelare le
differenti ricette, affiancate dalla traduzione nei rispettivi
dialetti
ANOLINI
Dose per circa
300 anolini
Per il ripieno
250 gr pan grattato
(possibilmente casalingo)
250 gr Parmigiano
Reggiano grattuggiato (stagionatura 36 mesi)
noce moscata q.b.
3 uova
sale q.b.
250 gr di stracotto
Per lo stracotto
100 gr di polpa di
manzo
100 gr di polpa di
maiale
50 gr di polpa di
cavallo
1 gamba di sedano
1 carota
1 cipolla
1 foglia d'alloro
qualche bacca di
ginepro
2 – 3 chiodi di
garofano
1 bicchiere di vino
rosso
Per la pasta
800 gr farina O
8 uova
Preparare dapprima
lo stracotto.
Tagliare a dadolata
il sedano e la carota. Infilzare la cipolla con i chiodi di garofano.
In un tegame di
coccio far rosolare le carni con le verdure ed un filo d'olio
extravergine d'oliva.
Aggiungere il
bicchiere di vino, un presa di sale, la foglia d'alloro e le bacche
di ginepro.
Incoperchiare e far
sobbollire per almeno 2 – 3 ore .
Controllare il
livello dei liquidi e, se necessario aggiungere un po' di acqua.
A cottura ultimata
la carne dovrà essere molto morbida.
Tritare finemente lo
stracotto, mentre con il sugo rimasto bagnare il pane grattugiato ed
unirlo, a sua volta, allo stracotto stesso, insieme alle uova, al
formaggio ed alla noce moscata.
Lavorare fino ad
ottenere un impasto omogeneo.
Preparare la pasta e
tirare una sfoglia sottile;
Disporre su di un
lato di essa tante palline di ripieno (grandi circa come un
cucchiaino da caffè) distanti 2 – 3 cm l'una dall'altra.
Ripiegare la pasta
su se stessa e premere intorno al ripieno in modo da far uscire
l'aria e da assicurare la massima coesione durante la cottura.
Tagliare gli anolini con l'apposita forma rotonda e seghettata.
Cuocere gli anolini
in un brodo preparato con cappone, manzo e vitello.
Anolini e tradizionale attrezzo per tagliarli |
Una piccola
annotazione finale. Gli anolini richiederebbero per la cottura il
“brodo di quarta” o “di terza”, vale a dire un brodo
preparato rispettivamente con quattro o con tre tipi di carni.
Tradizionalmente il
brodo “di quarta” era preparato con pollo, manzo, bue grasso e
costoletta di maiale, mentre quello “di terza” con cappone, manzo
e costine di maiale.
Poichè risultano
per entrambe le versioni dei brodi molto saporiti ma anche molto
grassi, nella mia famiglia si è sempre sostituta la carne di maiale
con la carne di vitello, in modo da ottenere un brodo un po' più
leggero.
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