BUON 2018
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domenica 31 dicembre 2017
martedì 26 dicembre 2017
Il pranzo della vigilia: i pesci e l'anguilla fritti e marinati
Per le feste di Natale, a Piacenza era tradizione mangiare i
pesciolini e le anguille fritte e marinate pescate nel fiume Po.
Gli stricc', o lasche (Chondrostoma genei), sono pesciolini
del Po lunghi pochi centimetri che vivono nelle anse del fiume e si
nutrono del poco che c’è. L'anguilla marinata, invece, in dialetto
è detta büratëin
(cioè burattino).
Nella mia famiglia, da sempre, questi piatti comparivano sulla tavola
del pranzo della Vigilia di Natale, assieme ad un pinzimonio di
verdure miste. Era un modo per mangiare qualcosa di magro, il pesce,
in attesa della cena e del pranzo del giorno dopo.
Quest'anno, qui a Genova, non sono riuscito a reperire i pesciolini
marinati e quindi ho pensato di provare a cucinarli io, seguendo le
ricette tipiche.
Non sono riuscito a trovare i pesci di fiume, ovviamente, e nemmeno i
latterini, quindi ho ripiegato su alcuni pesci misti per zuppa di
dimensioni piccole.
Non ho trovato nemmeno l'anguilla, quindi ho utilizzato un grongo
che, sia come sapore sia come consistenza delle carni, vi assomiglia
molto.
Il risultato è stato, comunque, molto apprezzato dai commensali.
Una piccola precisazione: per la perfetta riuscita di questa ricetta
sarebbe consigliabile acquistare dei pesci con poche lische, poichè
queste devono essere poi scartate quando si mangiano.
PESCIOLINI FRITTI E MARINATI
Ingredienti per 4 persone
400 – 500 gr di pesci piccoli
Farina 0 q.b.
Olio per frittura
250 ml Aceto
4 spicchi aglio
sale q.b.
2 foglie alloro
Pepe q.b.
Pulire i pesci dalle interiora a lavarli sotto acqua corrente. Unire
alla farina una presa di sale ed infarinarle molto bene i pesci.
Friggerli in abbondante olio fino a quando non saranno dorati e
croccanti.
Asciugare l'eccesso di olio con carta da cucina.
I pesci dopo la frittura |
Sminuzzare finemente 4 spicchi d'aglio e farli soffriggere in poco
olio. Aggiungere l'aceto di vino bianco, l'alloro in foglie ed il
pepe e lasciare sobbollire per circa 5 minuti.
Disporre i pesci in un recipiente di vetro a bordi alti, in modo che
possano venir ricoperti dalla marinatura.
Aggiungere la marinatura, coprire il recipiente e consumare dopo
almeno 24 h.
Dopo la marinatura di 24 h, pronti per essere mangiati |
Si conservano per una settimana in un recipiente ben chiuso in
frigorifero.
martedì 19 dicembre 2017
Col cavolo che si spreca in cucina! Gli involtini di cavolo verza con salsiccia e polenta
La verza (Brassica oleracea), anche detto cavolo verza, è un
ortaggio tipicamente invernale noto fin dall’antichità per le sue
proprietà medicinali.
Secondo un antico mito greco, il cavolo verza selvatico nacque dalle
gocce sudate di Zeus ed era già utilizzata come pianta medicinale
dai Greci stessi.
Gli Antichi Romani trovarono altre virtù di questo ortaggio: veniva
usato come antidoto, o addirittura come trattamento preventivo per
l’ubriachezza e come disinfettante in caso di ferite sotto forma di
impacco.
Del cavolo verza non si butta via nulla, perfino le foglie esterne,
alquanto fibrose possono essere riutilizzate in cucina per creare
degli ottimi involtini ripieni.
La ricetta seguente è un tipico esempio di come sia possibile
coniugare risparmio (in quanto gli ingredienti sono alquanto
economici) e sapore in cucina.
Inoltre, è opportuno sottolineare che anche la polenta proviene da
un “avanzo” di una cena precedente.
Ovviamente è anche possibile cucinarla “ex novo” per la ricetta,
ma, a mio modesto parere, è meglio utilizzare la polenta del giorno
prima.
Involtini
di cavolo verza con salsiccia e polenta
Per
4 persone
1
verza
350
gr di salsiccia fresca
6
cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
30
gr di burro
1
spicchio d'aglio
250
gr di farina di mais per polenta (macinata grossa)
1,5
l acqua
sale
olio
extravergine d'oliva
Se
decidete di riutilizzare la polenta avanzata dal giorno prima,
tagliare 2 - 3 fette non troppo spesse. Non è necessario essere
accurati in questa operazione, anzi, anche se la polenta si sbriciola va
benissimo.
In
alternativa, preparare la polenta facendo bollire l'acqua salata in
una casseruola dai bordi alti. Versare la farina di mais a pioggia e
mescolare per non far formare grumi.
Cuocere
a fuoco medio per circa 45 minuti sempre continuando a mescolare
ripetutamente con un cucchiaio di legno.
La
polenta sarà pronta quando inizia a staccarsi dai bordi della
casseruola.
Versare
la polenta su un tagliere di legno e lasciarla intiepidire.
Lavare
la verza e separare delicatamente le foglie. Scottarle in acqua
bollente e salata per 5 minuti, quindi scolarle e farle asciugare su
un canovaccio pulito.
Far
cuocere in un padella la salsiccia spellata e ridotta a pezzettini
con un filo d'olio extravergine e uno spicchio d'aglio.
Amalgamare
la salsiccia con la polenta in una ciotola.
Dividere
l'impasto così ottenuto sulle foglie di verza ed arrotolarle a
formare un involtino. Tenere in forma con uno stuzzicadenti.
Infornare gli involtini di verza a 180° per circa 5 minuti.
domenica 17 dicembre 2017
Noi di Piacenza… quelli che mangiano i tortelli con la coda
I
tortelli tipici della provincia di Piacenza sono dei tortelli a forma
di caramella. In dialetto, proprio per questa loro caratteristica
vengono chiamati turteil cun la cuà,
cioè tortelli con la coda.
A
causa di questa loro forma alquanto insolita non possono essere fatti
che a mano.
Il
ripieno è costituito da ricotta, spinaci (o bietole) e un pizzico di
noce moscata. Si possono quindi definire tortelli “di magro”
perché al loro interno non c’è macinato né prosciutto né carne.
Durante
la stagione estiva possono essere serviti con burro fuso, qualche
foglia di salvia e una spolverata di grana padano grattugiato, in
autunno, invece, sono accompagnati da un sugo prelibato, fatto con i
pomodori e i funghi porcini.
I
tortelli di Piacenza hanno alle spalle quasi
settecento anni di storia
e un’origine nobile: nacquero nella cucina del castello di
Vigolzone di proprietà degli Anguissola, la famiglia che governò
Piacenza dal XIV al XVII secolo. Fu una cuoca di corte a cucinarli
per la prima volta, in un giorno non precisato del 1351, in onore di
un ospite davvero illustre: Francesco
Petrarca.
La
donna, lavorando presso altre casate nobili d’Italia, aveva
imparato la ricetta degli gnocchi di ricotta e bietole (diffusi ad
esempio ad Alessandria col nome di rabaton
o in Toscana con quello di gnudi) e
decise di replicarla per stupire il grande poeta e scrittore.
Poichè
all’epoca non esistevano le posate e gli gnocchi erano abbastanza
scomodi da maneggiare, li racchiuse in una sottile sfoglia di pasta
all’uovo, a cui diede la forma di un paffuto tortello intrecciato.
A
Vigolzone i tortelli hanno ricevuto, nel 2006, la Denominazione
Comunale di Origine, insieme ad un’altra specialità del posto, la
squisita torta con i fichi freschi, nata nel XVII secolo nel convento
dei padri Gesuiti della frazione di Albarola.
TORTELLI
PIACENTINI
Dosi
per circa 120 tortelli
Per
la pasta all'uovo
500
gr farina
5
uova
Per
il ripieno
400
gr ricotta
2
uova
2
mazzi di bietole fresche
200
gr Parmigiano Reggiano grattugiato
noce
moscata q.b.
sale
Preparare
l'impasto facendo appassire in un tegame le bietole
con una spruzzata di sale per circa 5 – 6 minuti.
Strizzarle
e tritarle molto finemente con la mezzaluna.
Amalgamare
il trito così ottenuto
con le uova, la ricotta, il formaggio e un poco di noce moscata.
Preparare
l'impasto per la pasta all'uovo e tirare una sfoglia sottile.
Dividerla in strisce di circa otto cm. e ricavarne tanti
rettangolini.
Su
ogni riquadro mettere un cucchiaino di ripieno. Ripiegare
la pasta chiudendo il tortello a triangolo, poi girare i due angoli e
formare una treccia o meglio due code ben strette e sottili
arricciandole tra il pollice il medio e l'indice.
Metterli
a riposare su una spianatoia di legno spruzzata di farina fino al
momento di cuocerli.
Cuocere
i tortelli in acqua bollente salata.
Scolare i tortelli in una
zuppiera di ceramica e versarvi sopra il condimento (burro alla
salvia oppure sugo di funghi).
mercoledì 13 dicembre 2017
La Santa della luce: Santa Lucia
Una
decina di giorni prima di Natale , si celebra in diverse parti
d'Italia, ma anche d'Europa, Santa Lucia, santa diventata molto
popolare per una serie di circostanze non tanto dovute alla sua
figura storica ma in quanto in collegamento con il simbolismo
sostiziale.
Lucia
è effettivamente stata una martire cristiana, morta durante le
persecuzioni di Diocleziano a Siracusa nel 304. Gli episodi della sua
vita sono riportati da due passiones, la prima greca e la
seconda latina.
Entrambe
le versioni sono, probabilmente, poco rispondenti alla verità
storica, in particolar modo quella latina, infarcita di leggende come
era usanza per le altre vite di santi dei primi secoli.
Secondo
la fonte greca, Lucia era una giovane e ricca siracusana, fidanzata
con un concittadino.
Durante
un pellegrinaggio al sepolcro della martire Agata a Catania,
intrapreso per chiedere la guarigione della madre malata, la santa
apparve alla giovane.
Nella
visione Agata preannunciava a Lucia anche il suo martirio e il
patronato sulla sua città natale. Ritornata a Siracusa e constatata
la guarigione della madre, Lucia annuciò la sua ferma decisione di
consacrarsi a Cristo e di donare tutti i suoi averi ai poveri. Il
pretendente, insospettito e preoccupato nel vedere la sposa donare
tutto il suo patrimonio, e, dopo aver verificato il rifiuto di Lucia
alle nozze, la denunciò come cristiana. Erano, infatti, in vigore i
decreti di persecuzione dei cristiani emanati dall'imperatore
Diocleziano.
In
tribunale il giudice non riuscì a far abiurare la giovane, né con
le lusinghe, né con le minacce. Venne quindi condannata ad essere
esposta tra le prostitute, ma quando i soldati si apprestarono a
condurla via, si accorsero che Lucia era diventata pesante e
irremovibile come una roccia. Nemmeno una coppia di buoi riuscì a
smuoverla.
Lucia
allora fu sottoposta al supplizio del fuoco, ma ne rimase totalmente
illesa, infine fu condannata a morte per decapitazione o, secondo le
fonti latine, per jugulatio (cioè sgozzamento mediante
pugnale).
La
sua festa liturgica ricorre il 13 dicembre, giorno del suo martirio.
Antecedentemente
all'introduzione del calendario gregoriano (1582), la festa della
Santa cadeva in prossimità del solstizio d'inverno (da cui il detto
"santa Lucia il giorno più corto che ci sia"), ma non vi
coincise più con l'adozione del nuovo calendario (differenza di 10
giorni).
La
celebrazione della festa in un giorno vicino al solstizio d'inverno è
probabilmente dovuta alla volontà cristiana di sostituire antiche
feste pagane che celebravano il ritorno della luce.
Il
culto di santa Lucia infatti presenta diverse affinità con il culto
di Artemide, l'antica divinità greca venerata a Siracusa nell'isola
di Ortigia. Ad Artemide, come a santa Lucia, sono sacre la quaglia e
l'isola di Ortigia. Artemide e Lucia sono entrambe vergini. Artemide
è inoltre vista anche come dea della luce mentre stringe in mano due
torce accese e fiammeggianti.
La
santa siracusana era perfetta per sostituire queste tradizioni
pagane. Il suo nome evocava la luce: deriva, infatti dal latino
Lùcia,
la cui radice è proprio lux,
cioè luce.
Nel
periodo storico in cui la sua festa coincise con il periodo
sostiziale, la sua figura divenne anche promessa e segno di luce
materiale, divenne cioè annunciatrice della fine delle tenebre
invernali e dei futuri giorni più chiari.
In
tal senso si colloca , quindi, il suo patronato sulla vista e
su tutto ciò che è connesso con la luce. Per meglio rafforzare
questa tradizione ed estirpare completamente tutti i culti pagani dei
“portatori di luce”, un agiografo sconosciuto ha aggiunto alla
passio di Lucia un episodio probabilmente mai avvenuto.
La
giovane, infatti, per non cedere alle suppliche del fidanzato, si
sarebbe strappata gli occhi.
Nell'iconografia
cristiana, quindi, Lucia appare con vari attributi connessi sia al
suo martirio, come la palma ed il pugnale o spada che la trafisse,
sia al suo ruolo di “messaggera di luce” come la lampada
(simbolo che richiama la dea Artemide) ed il piattino recanti i
suoi occhi.
Alla
festa di Santa Lucia sono connesse molte usanze, come quella di non
mangiare il pane o farinacei il 13 dicembre, in ricordo della
carestia che affamò la Sicilia nel XVII secolo e che fu risolta, si
dice, proprio dall'intervento della santa che convogliò nei porti
una flotta di navi cariche di frumento.
A
Palermo, ad esempio, si mangia la cuccìa, un piatto a
base di chicchi di frumento messi a macerare il giorno precedente.
Il
culto della santa si è diffuso, a partire dal medioevo, soprattutto
nell'Italia del nord ed in Europa.
Nel
Veneto, Lombardia e in Emilia
Romagna, in
particolare in provincia di Piacenza,
esiste una tradizione legata ai "doni di santa Lucia",
figura omologa dei vari San Nicola, Babbo Natale, Gesù Bambino,
Befana e altri che, durante i secoli, hanno sostituito l'antico culto
degli avi nell'immaginario infantile.
Leggenda
vuole che quando la giovane Santa Lucia salì in Paradiso fosse molto
triste, ragion per cui San Pietro le concesse di tornare sulla Terra
in groppa ad un asinello per una notte all'anno, quella tra il 12 ed
il 13 dicembre, e di portare con sé doni per tutti i bambini. In
cambio a Lucia vengono lasciati mandarini e biscotti e al suo
asinello fieno e zuppa.
In
Svezia, Lucia è molto venerata, sia dalla chiesa cattolica, che
da quella luterana. I bambini preparano biscotti e dolciumi (tra
questi, delle focaccine allo zafferano e all'uvetta chiamate
lussekatter) a partire dal 12 dicembre. La mattina del
13, la figlia maggiore della famiglia si alza ancor prima dell'alba e
si veste con un lungo abito bianco legato in vita da una cintura
rossa, a ricordo del sangue versato dalla martire; la testa è ornata
da una corona di foglie e da sette candele utili per vedere
chiaramente nel buio. Le sorelle, che indossano una camicia bianca,
simboleggiano le stelle. I maschi indossano cappelli di paglia e
portano lunghi bastoni decorati con stelline.
La
bambina vestita come santa Lucia sveglia gli altri membri della
famiglia e serve loro i biscotti cucinati il giorno precedente.
Il
nome di questi dolcetti allo zafferano pare che significhi “gatti
di Lucifero” e non di Lucia, come si sarebbe portati a credere. Si
tramanda, infatti, una leggenda di origini tedesche secondo la quale
il diavolo, assunte le sembianze di un gatto, usava maltrattare e
picchiare i bambini cattivi; quelli buoni, al contrario venivano
premiati da Gesù proprio con questi biscotti a forma di esse.
Ogni
anno, inoltre, viene eletta la Lucia di Svezia che raggiungerà la
città siciliana di Siracusa per partecipare alla processione
dell'ottava, in cui il simulacro di santa Lucia viene ricondotto in
Duomo con una enorme processione accompagnata da fuochi d'artificio,
che esprimono perfettamente il carattere della festa all'insegna
della luce.
mercoledì 6 dicembre 2017
Anolini di Natale: una ricetta tradizionale dell'Antico Ducato di Parma e Piacenza
Gli anolini sono una
tipologia di pasta ripiena originaria dei territori dell'antico
Ducato di Parma e Piacenza.
Si tratta,
ovviamente, di un piatto con radici antiche, tramandato da
generazioni nelle famiglie dell'Emilia.
La tradizione vuole che
durante la vigilia di Natale la famiglia si riunisca per la
preparazione degli anolini di Natale o anvëin d' Nadäl come
sono definiti nel Piacentino.
E’ un piatto ricco
ed elaborato, come del resto molti piatti proposti nelle festività
importanti, ma l'insieme degli ingredienti ne fa un piatto raffinato.
Sono preparati
disponendo palline di un ripieno formato da stracotto, uova e
formaggio su una sfoglia di pasta ripiegata su se stessa. Si taglia
attorno al ripieno con appositi stampini metallici, che possono
essere circolari o con bordi seghettati; la pressione dello stampo
salda assieme i bordi della sfoglia.
Il termine
deriverebbe dal latino anulus ossia anello. Nasce come raviolo
o pasta ripiena nel XII secolo, come riporta Salimbene De Adam nella
sua Cronica del 1284.
Nel XVI secolo
Bartolomeo Scappi li cita come piatto che compare sulle mense dei re
e dei papi.
Nel 1536,infatti,
mentre era al sevizio del Cardinale Lorenzo Campeggi, la prima
ricetta scritta degli anolini compare nella sua Opera letteraria
di cucina.
Alla corte del Duca
Ranuccio Il Farnese nel 1659 sono descritti come un piatto cucinato
con ripieno di formaggio Parmigiano e carne di cappone.
Più tardi, anche
alla corte di Maria Luigia Duchessa di Parma e Piacenza (1791-1847)
si mangiavano gli anolini e si collega ad essa la frase "Solo al
re Anolino la Duchessa porge il suo inchino".
La tradizione degli
anolini si ritrova sia in provincia di Piacenza sia di Parma. In
dialetto piacentino sono detti anvëin, mentre in parmigiano
anolén. Esiste anche una ricetta della provincia di Cremona
nota come marubini (o in cremonese marubén).
La variante
piacentina, è leggermente più piccola ed è a forma di mezzaluna
seghettata, mentre nel parmense sono più grandi, rotondi e con bordi
lisci.
Il bordo seghettato
possiede il vantaggio di avere una quantità maggiore di sfoglia a
parità di ripieno e una tenuta migliore della chiusura rispetto a
quello liscio.
In Val d'Arda è
invece diffusa una variante che non contempla la presenza della carne
nel ripieno, una versione più magra quindi, composta solo da Grana
Padano molto stagionato e pane grattugiato.
Su proposta della
Regione Emilia-Romagna il Ministero delle Politiche Agricole,
Alimentari e Forestali ha riconosciuto gli anolini come uno dei
prodotti agroalimentari tradizionali italiani tipici delle province
di Piacenza e di Parma con due voci distinte,proprio per tutelare le
differenti ricette, affiancate dalla traduzione nei rispettivi
dialetti
ANOLINI
Dose per circa
300 anolini
Per il ripieno
250 gr pan grattato
(possibilmente casalingo)
250 gr Parmigiano
Reggiano grattuggiato (stagionatura 36 mesi)
noce moscata q.b.
3 uova
sale q.b.
250 gr di stracotto
Per lo stracotto
100 gr di polpa di
manzo
100 gr di polpa di
maiale
50 gr di polpa di
cavallo
1 gamba di sedano
1 carota
1 cipolla
1 foglia d'alloro
qualche bacca di
ginepro
2 – 3 chiodi di
garofano
1 bicchiere di vino
rosso
Per la pasta
800 gr farina O
8 uova
Preparare dapprima
lo stracotto.
Tagliare a dadolata
il sedano e la carota. Infilzare la cipolla con i chiodi di garofano.
In un tegame di
coccio far rosolare le carni con le verdure ed un filo d'olio
extravergine d'oliva.
Aggiungere il
bicchiere di vino, un presa di sale, la foglia d'alloro e le bacche
di ginepro.
Incoperchiare e far
sobbollire per almeno 2 – 3 ore .
Controllare il
livello dei liquidi e, se necessario aggiungere un po' di acqua.
A cottura ultimata
la carne dovrà essere molto morbida.
Tritare finemente lo
stracotto, mentre con il sugo rimasto bagnare il pane grattugiato ed
unirlo, a sua volta, allo stracotto stesso, insieme alle uova, al
formaggio ed alla noce moscata.
Lavorare fino ad
ottenere un impasto omogeneo.
Preparare la pasta e
tirare una sfoglia sottile;
Disporre su di un
lato di essa tante palline di ripieno (grandi circa come un
cucchiaino da caffè) distanti 2 – 3 cm l'una dall'altra.
Ripiegare la pasta
su se stessa e premere intorno al ripieno in modo da far uscire
l'aria e da assicurare la massima coesione durante la cottura.
Tagliare gli anolini con l'apposita forma rotonda e seghettata.
Cuocere gli anolini
in un brodo preparato con cappone, manzo e vitello.
Anolini e tradizionale attrezzo per tagliarli |
Una piccola
annotazione finale. Gli anolini richiederebbero per la cottura il
“brodo di quarta” o “di terza”, vale a dire un brodo
preparato rispettivamente con quattro o con tre tipi di carni.
Tradizionalmente il
brodo “di quarta” era preparato con pollo, manzo, bue grasso e
costoletta di maiale, mentre quello “di terza” con cappone, manzo
e costine di maiale.
Poichè risultano
per entrambe le versioni dei brodi molto saporiti ma anche molto
grassi, nella mia famiglia si è sempre sostituta la carne di maiale
con la carne di vitello, in modo da ottenere un brodo un po' più
leggero.
domenica 26 novembre 2017
Gli auguri di carta
C'era
un tempo in cui gli auguri non arrivavano in tempo reale sui
telefonini o nelle caselle e-mail. Anni fa ci si affidava all'invio
di cartoline tramite posta che, magari, per giungere a destinazione
ci impiegavano anche una settimana.
C'era
un tempo in cui gli auguri, forse, erano più sentiti e più sinceri
perché farli era un procedimento lungo: dapprima si doveva decidere
a chi inviare le cartoline, in seguito scegliere l'immagine più
adatta, poi scrivere “in bella grafia” gli auguri ed infine
imbucarle nella cassetta della posta.
Insomma
era proprio il fatto di aver dedicato una parte della propria
giornata a qualcuno che rendeva questi auguri così speciali.
Oggi
basta premere distrattamente qualche tasto e gli auguri sono pronti
ad essere inviati a tutto il mondo.
Eppure
quanti di questi auguri virtuali saranno gelosamente conservati come
invece accadeva per le cartoline natalizie?
Anche
le immagini erano molto evocative e pregne di un fascino particolare.
Vi
erano fiabeschi paesaggi innevati, bambini in veste di pastorelli,
alberi di Natale e slitte colme di regali trainati da cavalli con
eleganti bardature, tutti disegnati con mano un po' ingenua.
Erano
importanti queste cartoline.
Una
volta ricevute diventavano quasi un semplice regalo di natale,
utilizzate per abbellire la casa o raccolte in album creati ad hoc,
realizzati in cartoncino con apposite fessure in cui inserire gli
angoli dell'immaginetta.
La
tradizione di inviare auguri, comunque, ha origini remote.
E'
un antichissimo costume nato in Cina grazie alla scoperta della
xilografia che diffuse largamente l'uso di realizzare piccole
immagini da tenere in casa o da appendere sopra le porte d'ingresso.
A
partire dal Quattrocento tale usanza si diffuse nei paesi di lingua
tedesca, in cui per il nuovo anno si usava regalare delle piccole
stampe in cui erano mescolati elementi cristiani ed elementi di
tradizione pagana.
All'inizio
dell'Ottocento, con il perfezionamento dei metodi di stampa, i
commercianti cominciarono a riprodurre la stessa immagine su vasta
scala, sbizzarrendosi sia sui soggetti sia negli effetti speciali,
utilizzando le tecniche del collage di vari elementi quali stoffe,
velluti, strass, ma anche impiegando parti mobili mosse da sottili
lamelle di carta.
Verso
la metà del secolo, grazie allo sviluppo della stampa, l’invio di
biglietti per le Sante Feste divenne un fenomeno di massa.
La
prima cartolina augurale “popolare” fu creata nel 1870 da un
litografo inglese, John S. Day, che stampò su un’ufficiale e nuda
cartolina postale da mezzo penny una cornicetta composta da vischio e
agrifoglio, riportante nel centro la classica frase “Buon Natale e
felice Anno Nuovo”.
domenica 12 novembre 2017
San Martino: tra leggenda e tradizioni popolari
Martino
di Tours, nacque a Sabaria in Pannonia, nell'odierna Ungheria nel 316 o nel 317 . Il padre era un tribuno dell'Impero Romano. Ancora bambino
si trasferì coi genitori a Pavia, dove suo padre aveva ricevuto un
podere in quanto ormai veterano, e in quella città trascorse
l'infanzia.
Benché
la sua famiglia fosse pagana, egli diventò cristiano
anche se non si fece battezzare fino all'età adulta.
Nel
331 un editto imperiale obbligò tutti i figli di veterani ad
arruolarsi nell'esercito romano.
Il
giovane Martino fu reclutato nelle Scholae imperiali ed
inviato in Gallia, presso la città di Amiens, dove trascorse la
maggior parte della sua vita da soldato.
Faceva parte, all'interno
della guardia imperiale, di truppe non combattenti che garantivano
l'ordine pubblico, la protezione della posta imperiale, il
trasferimento dei prigionieri o la sicurezza di personaggi
importanti.
Proprio
nella città di Amiens nell'odierna Francia avvenne l'episodio
più ricordato della vita del Santo: la condivisione del suo
mantello con un povero.
Nel
rigido inverno del 335 Martino incontrò un mendicante seminudo.
Vedendolo sofferente, tagliò in due il suo mantello militare (la
clamide bianca della guardia imperiale) e lo condivise con il
mendicante. La notte seguente gli apparve in sogno Gesù rivestito
della metà del suo mantello militare. Quando Martino si risvegliò
il suo mantello era tornato miracolosamente integro.
Il
mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far
parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi.
Il
termine latino che indicava il mantello corto, cappella,
venne, così, esteso alle persone incaricate di conservare il
mantello di San Martino (i cappellani, appunto) e da questi venne
applicato all'oratorio reale chiamato cappella.
Secondo
le tradizioni il sogno segnò profondamente Martino, che si fece
battezzare ed abbracciò completamente la vita cristiana.
Terminato
il periodo obbligatorio di servizio militare, a circa 40 anni lasciò
l’esercito e si recò a Poitiers dal Vescovo Ilario.
L'ex
soldato si impegno nella lotta all'eresia ariana (che era stata
condannata dal Concilio di Nicea nel 325) e per questo venne
perseguitato e scacciato sia dalla Francia, sia da Milano,dove si era
rifugiato, poiché in tali luoghi vi erano stati eletti vescovi
ariani.
Nel
357 Martino si trova in Liguria e
precisamente sull'Isola Gallinara di fronte ad Albenga (SV) dove
trascorre 4 anni come eremita.
Tornato
a Poitiers ,nel 361 il Vescovo gli concesse di ritirarsi in un eremo
a 8 chilometri dalla città, a Ligugé.
Nel
371 gli elettori riuniti a Tours lo eleggono Vescovo. A questo evento
è legato il tradizionale cibo nordico della festa
di San Martino, cioè l'oca. Secondo la leggenda, infatti,
Martino era assai restio ad assumere tale carica e, pertanto, si
nascose in una stalla con le oche. Le bestiole, però, fecero rumore,
rivelando così il nascondiglio alle presone che lo stavano cercando.
Martino,
comunque, assolse le funzioni episcopali con autorità e prestigio,
senza però abbandonare le scelte monacali. Continuò a vivere come
un eremita a tre chilometri dalla città. In questo ritiro, venne ben
presto raggiunto da numerosi seguaci. Si creò, così, un monastero,
denominato in latino Maius monasterium (monastero grande), in
seguito noto come Marmoutier, di cui egli divenne abate e in
cui impose una regola di povertà, di evangelizzazione e di
preghiera.
Se
da un lato Martino rifiutò il lusso e l’apparato di un dignitario
della Chiesa, dall’altra non trascurò le sue funzioni episcopali.
A Tours respinse sempre le visite di carattere mondano, ma, allo
stesso tempo, si occupò dei prigionieri, dei condannati a morte, dei
malati e dei morti, che guarì e, si dice, resuscitò. La leggenda
tramanda che perfino i fenomeni naturali gli obbedivano.
Marmoutier,
al termine del suo episcopato, conta 80 monaci, costituendo la prima
comunità monastica in terra francese.
Il
vescovo Martino morì l’8 novembre 397 a Candes-Saint-Martin, dove
si era recato per mettere pace fra il clero locale.
I
funerali si celebrarono a Tours 3 giorni dopo, l'11 novembre,
e proprio tale data venne scelta come festa del Santo.
Divenne
ben presto una festa straordinaria in tutto l'Occidente, grazie alla
popolare fama di santità del vescovo e al numero notevole di
cristiani che portavano il nome di Martino.
Martino
è uno fra i primi santi non martiri proclamati dalla Chiesa e
divenne il santo francese per eccellenza.
In
Italia il culto del Santo è legato alla cosiddetta “estate di
San Martino”, cioè un paio di giorni di tempo mite e
soleggiato che si manifesta, in senso meteorologico, all'inizio di
novembre e dà luogo ad alcune tradizionali feste popolari.
Una
vecchia usanza prevedeva,infatti, che tutti, compresi i bambini,
mangiassero le castagne e bevessero vino. Secondo alcuni storici
questi festeggiamenti derivavano da una festa latina della durata di
un mese che iniziava il 24 novembre (festa di Brumalia), e che
venne, in seguito, rinominata dai cristiani Martinalia in onore
appunto di San Martino ( vedi il libro “Storia di Vari costumi
sacri e profani dagli Antichi fino a noi pervenuti” Padre
Michelangelo Carmeli,1750).
La
leggenda tramanda che la breve interruzione della morsa del freddo,
si ripeta ogni anno per commemorare il gesto magnanimo e generoso del
santo quando divise il suo mantello con il povero mendicante.
Il
giorno dell’11 novembre coincideva inoltre con la fine delle
celebrazioni del Capodanno dei Celti, il “Samuin”, che si
svolgevano proprio nei primi dieci giorni del mese: il retaggio di
questa festa pagana era ancora presente nell’Alto Medioevo, e la
Chiesa sovrappose il culto cristiano del santo più amato dell’epoca
alle tradizioni celtiche. Molte usanze di ascendenza precristiana
sopravvissero così nel corso dei secoli, confluendo nelle
celebrazioni di san Martino.
La
festa di San Martino era una delle più importanti feste dell’anno,
una sorta di capodanno contadino nel corso del quale si mangiava e
beveva in abbondanza. Anticamente infatti il periodo di penitenza e
digiuno che precede il Natale cominciava il 12 novembre e prendeva il
nome di Quaresima di san Martino.
A
incoraggiare il momento di baldoria era anche la conclusione delle
attività agricole legate all’inizio dell’autunno, nonché il
clima più mite che solitamente caratterizza queste giornate. In
questo periodo inoltre occorreva finire il vino vecchio per pulire le
botti e lasciarle pronte per la nuova annata, e al contempo si
iniziava a bere il vino novello. L’atmosfera era simile a quella di
un giovedì grasso, come ci testimonia il dipinto di Pieter Bruegel
il Vecchio dal titolo Il vino di San Martino: il popolo in
festa si precipita a tracannare il vino nuovo, mentre sulla destra
vediamo il santo a cavallo.
Nel
veneziano l'11 novembre è usanza preparare il dolce di San
Martino, un biscotto dolce di pasta frolla con la forma del Santo
con la spada a cavallo, decorato con glassa di albume e zucchero
ricoperta di confetti e caramelle.
A
Palermo si preparano i biscotti di San Martino abbagnati
nn'o muscatu (inzuppati nel vino moscato di Pantelleria), a forma
di pagnottella rotonda grande come un'arancia e con l'aggiunta
nell'impasto di semi d'anice (o finocchio selvatico) che conferisce
loro un sapore e un profumo particolare.
In
molte regioni d'Italia l'11 novembre è simbolicamente associato
alla maturazione del vino nuovo (si ricordi il proverbio "A
San Martino ogni mosto diventa vino") e questo diventava
un'occasione di ritrovo e festeggiamenti.
Nel
nord Italia, specialmente nelle aree agricole, fino a non molti anni
fa tutti i contratti (di lavoro ma anche di affitto,
mezzadria, ecc) avevano inizio e, conseguentemente anche fine l'11
novembre, data scelta proprio in quanto i lavori nei campi erano
già terminati senza però che fosse già arrivato il clima rigido
dell'inverno. Per questo, scaduti i contratti, chi aveva una casa in
uso la doveva lasciare libera proprio l'11 novembre e non era
inusuale, in quei giorni, imbattersi in carri strapieni di ogni
masserizia che si spostavano da un podere all'altro, facendo "San
Martino", nome con cui popolarmente si indicava tale trasloco.
Ancora
oggi in molti dialetti e modi di dire del nord "fare San
Martino" mantiene il significato di traslocare.
venerdì 3 novembre 2017
San Torpete: il santo che accomuna Pisa, Genova e la Provenza (ed a Genova ha una chiesa a lui dedicata)
San
Torpete conosciuto anche come Torpè, Torpes, Torpezio, Tropezio,
Tropez (nome latino Gaius Silvius Torpetius), è venerato come
santo dalla Chiesa cattolica.
Fu martirizzato presso Pisa durante il
regno dell'Imperatore Nerone
Gli
Atti del martirio di S. Torpete e il Martirologio Romano
costituiscono le uniche scarse fonti sulla figura di Torpete.
In
realtà, al di là della tradizione leggendaria, di questo santo non
sappiamo niente di certo, neppure quando è vissuto, perché i dati
biografici e storici sono pressochè inesistenti. Probabilmente la
sua leggenda è nata solo per giustificare la presenza del suo culto
a Pisa fin dall’alto medioevo e fu retrodatata al tempo di Nerone,
emblema dell’imperatore crudele primo grande persecutore dei
cristiani.
San
Torpè o Torpete era un soldato romano. Egli visse al tempo in cui
Pietro apostolo, prima di raggiungere Roma, si fermò presso la
Basilica di San Piero a Grado vicino all'odierna città di Pisa.
Torpè,
convertitosi al Cristianesimo, fu battezzato dal religioso Antonio,
eremita sui monti tra Pisa e Lucca.
Diventato
cristiano, Torpete praticava di nascosto la nuova fede religiosa, il
che non gli impediva di svolgere un ruolo importante presso
l’amministrazione romana.
Tornato
a Pisa, fu riconosciuto cristiano dal prefetto della città,
Satellico, il quale tentò di riportarlo alla religione pagana. A
nulla valsero i suoi sforzi: né le false promesse, né le torture
convinsero Torpete a rinnegare la sua nuova fede e, quindi, fu
martirizzato per decapitazione presso San Rossore il 29 aprile 68.
Dopo
la sua morte, il corpo di Torpete fu abbandonato sopra
un'imbarcazione, insieme ad un gallo e ad un cane, alla foce
dell'Arno.
La
barca si arenò nelle vicinanze di una piccola cittadina della
Provenza chiamata Heraclea e ribattezzata Saint-Tropez in
onore del Santo.
La
testa del martire che era stata lasciata presso la foce dell’Arno,
fu successivamente raccolta dai cristiani e collocata dapprima in una
cappella eretta in suo onore in San Rossore, quindi in una seconda
cappella in prossimità dell’attuale chiesa di San Ranierino,
infine nell’attuale chiesa di San
Torpè, presso i cosiddetti Bagni di Nerone, ruderi romani che
probabilmente sono all'origine di tutta la Passio, costruita
radunando luoghi comuni della tradizione martiriale.
Il
santo pisano si distinse per alcuni segni prodigiosi: esemplare
quello del 29 aprile 1633, quando liberò Pisa colpita da una
gravissima peste.
Per
ricordare il santo, tutti gli anni, il 29 aprile un gruppo di
pellegrini francesi si reca a Pisa, mentre il 16 maggio una
delegazione comunale pisana raggiunge Saint-Tropez per festeggiare
il patrono della città.
La
festa, chiamata Bravade, dura tre giorni e mostra la devozione degli
abitanti di Saint-Tropez per il santo pisano.
Esistono
tre principali chiese dedicate al santo martire pisano; esse si trovano a
Pisa, a Genova e a Saint-Tropez.
A
Pisa è presente la Chiesa e convento di San Torpé, in via Fedeli.
Nel centro storico di Genova, invece, sorge la Chiesa di San Torpete.
Ma
come si colloca la città di Genova all'interno di questa narrazione?
Il
culto di San Torpete fu importato a Genova dai mercanti pisani che
eressero in suo onore una chiesa nella piazza del mercato, non
lontana dalla loggia che i Pisani possedevano nell’area curiale
della famiglia di nobiltà mercantile dei Della Volta .
La
famiglia dei Della Volta, infatti, già proprietaria dal X secolo di
feudi nella Valbisagno, aveva la zona dell'antico Forum Sancti
Georgii sotto la propria giurisdizione e nel 1150 decise di
allearsi con la colonia pisana e favorirne l'insediamento: fu così
che i pisani si aggiunsero all'antica nobiltà locale, ai fiorentini
e ai lucchesi e cominciarono a gestire i propri traffici dalla loggia
del forum.
La
chiesa di san Torpete è con buon margine di certezza una delle
parrocchie più antiche di Genova, poiché già nel 935 esistono
notizie relative a una porta delle mura urbane dedicata al martire
pisano.
La
chiesa originale era edificata in stile romanico, con la facciata a
bande bianche e nere rivolta a ponente secondo la consuetudine
dell'epoca.
Dopo
alcuni anni i Pisani la cedettero ai Della Volta (che in seguito
avrebbero assunto il nome di Cattaneo), che ne fecero la propria
chiesa gentilizia, ottenendone nel 1308 il giuspatronato, che
conservano formalmente ancora oggi.
Nel
1180 avvenne la consacrazione da parte dell'arcivescovo Ugone Della
Volta, come ricorda un'iscrizione collocata sopra la porta laterale
della chiesa, che divenne il luogo di culto della comunità
mercantile pisana di Genova per quasi due secoli.
Nel
1290 sulla facciata di questa chiesa, furono esposti alcuni anelli
della catena del porto pisano, portati
a Genova come trofeo dalla flotta di Corrado Doria che aveva forzato
il porto della città rivale.
Dopo
i gravi danni causati dal bombardamento navale francese del 1684
vennero eseguiti alcuni restauri all'edificio medievale.
Circa
cinquant'anni dopo, nel 1730, Cesare Cattaneo decise di ricostruire
totalmente la chiesa.
Il
progetto, affidato a Giovanni Antonio Ricca (detto il Gobbo) (1688-1748),
fu realizzato tra il 1730 e il 1733.
Con
la ricostruzione settecentesca fu attuato un radicale stravolgimento
della struttura della chiesa medioevale: la facciata, che prima si
apriva sul lato di ponente, venne spostata a quello settentrionale,
prospiciente la piazza. Lo stile della facciata è barocco, con
aggiunte posteriori neoclassiche (timpano, nicchie e paraste)
realizzate intorno alla metà dell'Ottocento, periodo a cui
appartiene anche la grande cupola ellittica, con copertura in scaglie
d'ardesia.
L'interno,
interamente coperto dalla cupola, è un unico vano a pianta
ellittica.
La
nuova chiesa, a pianta centrale e con un diverso orientamento,
comprende tutta l'area della precedente più quella di una palazzina
adiacente acquistata dai Cattaneo, sulle cui fondamenta fu realizzata
la canonica. Al termine dei lavori, il 23 novembre 1733 la chiesa
venne nuovamente consacrata ed in quella circostanza al titolo di S.
Torpete fu aggiunto quello di Santa Maria Immacolata.
Tra
le opere conservate al suo interno, nell'abside è collocato il
dipinto San Torpete illeso tra le fiere di Giovanni Carlone
(il quadro è l'unica opera all'interno della chiesa che raffigura il
santo titolare), nella cappella di destra Madonna con bambino tra
San Tommaso di Canterbury, Santa Lucia e San Giovanni Battista
(fine del XVI secolo, incertamente attribuito ad Andrea Semino) e in
quella di sinistra San Filippo Neri in estasi (attribuito alla
scuola di Giovanni Battista Paggi, del XVII secolo).
Sull'altare
maggiore è posto un crocifisso ligneo di anonimo scultore genovese
(1790-1810).
![]() |
San Torpete illeso tra le fiere |
![]() |
Madonna con bambino tra San Tommaso di Canterbury, Santa Lucia e San Giovanni Battista |
In
controfacciata è collocata una statua lignea policroma della Madonna
della Provvidenza, di Giovanni Battista Drago (1854), rivestita con
abiti ed ornamenti, un tempo oggetto di grande devozione col tempo
abbandonata in favore del culto della Madonna della Guardia.
La
chiesa è una delle poche a pianta centrale presenti a Genova.
La
città di Genova, però, è strettamente collegata anche alla
cittadina francese di Saint – Tropez.
L’erudito
Luigi Tomaso Belgrano ricorda con orgoglio i forti legami esistenti
con la comunità genovese:
“Nell'anno
1470 Giovanni Cossa, luogotenente generale del re Renato in Provenza,
concedette in feudo a Raffaello da Garessio la signoria del luogo di
Saint-Tropez, allora deserto; ed il Garessio vi condusse dalla
riviera ligustica ben sessanta famiglie, le quali edificaronvi il
presente borgo ed una nuova chiesa in onore di quel santo.
L'origine
adunque della moderna città di Saint-Tropez è cosa nostra; ed i
suoi abitatori, con nobile compiacenza, ricordano tuttora i vincoli
onde sono a noi collegati. Ne è prova la Società delle regate, ivi
costituitasi nel 1862; la quale fondandosi appunto su questi legami,
chiedeva per mezzo del Maire al nostro Municipio il dono di due
stendardi, l'uno divisato ai colori nazionali e l'altro ornato della
temuta croce dell'antica Repubblica Genovese, da distribuirsi in
premio a coloro che avessero trionfato nelle solenni corse del 18
maggio 1864. Il Municipio assentiva di buon grado alla domanda; e
spediva a Saint-Tropez due superbi vessilli, i quali venivano accolti
da que' cittadini col più vivo trasporto, in mezzo alle grida di
evviva alla Metropoli della Liguria.”
(L.T.Belgrano,
Della vita privata dei Genovesi, Genova 1875, p.48, n.3)
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