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martedì 26 dicembre 2017

Il pranzo della vigilia: i pesci e l'anguilla fritti e marinati

Per le feste di Natale, a Piacenza era tradizione mangiare i pesciolini e le anguille fritte e marinate pescate nel fiume Po.
Gli stricc', o lasche (Chondrostoma genei), sono pesciolini del Po lunghi pochi centimetri che vivono nelle anse del fiume e si nutrono del poco che c’è. L'anguilla marinata, invece, in dialetto è detta büratëin (cioè burattino).

Nella mia famiglia, da sempre, questi piatti comparivano sulla tavola del pranzo della Vigilia di Natale, assieme ad un pinzimonio di verdure miste. Era un modo per mangiare qualcosa di magro, il pesce, in attesa della cena e del pranzo del giorno dopo.

Quest'anno, qui a Genova, non sono riuscito a reperire i pesciolini marinati e quindi ho pensato di provare a cucinarli io, seguendo le ricette tipiche.

Non sono riuscito a trovare i pesci di fiume, ovviamente, e nemmeno i latterini, quindi ho ripiegato su alcuni pesci misti per zuppa di dimensioni piccole.
Non ho trovato nemmeno l'anguilla, quindi ho utilizzato un grongo che, sia come sapore sia come consistenza delle carni, vi assomiglia molto.




Il risultato è stato, comunque, molto apprezzato dai commensali.
Una piccola precisazione: per la perfetta riuscita di questa ricetta sarebbe consigliabile acquistare dei pesci con poche lische, poichè queste devono essere poi scartate quando si mangiano.


PESCIOLINI FRITTI E MARINATI

Ingredienti per 4 persone

400 – 500 gr di pesci piccoli
Farina 0 q.b.
Olio per frittura
250 ml Aceto
4 spicchi aglio
sale q.b.
2 foglie alloro
Pepe q.b.

Pulire i pesci dalle interiora a lavarli sotto acqua corrente. Unire alla farina una presa di sale ed infarinarle molto bene i pesci.
Friggerli in abbondante olio fino a quando non saranno dorati e croccanti.
Asciugare l'eccesso di olio con carta da cucina.

I pesci dopo la frittura



Sminuzzare finemente 4 spicchi d'aglio e farli soffriggere in poco olio. Aggiungere l'aceto di vino bianco, l'alloro in foglie ed il pepe e lasciare sobbollire per circa 5 minuti.
Disporre i pesci in un recipiente di vetro a bordi alti, in modo che possano venir ricoperti dalla marinatura.
Aggiungere la marinatura, coprire il recipiente e consumare dopo almeno 24 h.

Dopo la marinatura di 24 h, pronti per essere mangiati



Si conservano per una settimana in un recipiente ben chiuso in frigorifero.



martedì 19 dicembre 2017

Col cavolo che si spreca in cucina! Gli involtini di cavolo verza con salsiccia e polenta

La verza (Brassica oleracea), anche detto cavolo verza, è un ortaggio tipicamente invernale noto fin dall’antichità per le sue proprietà medicinali.
Secondo un antico mito greco, il cavolo verza selvatico nacque dalle gocce sudate di Zeus ed era già utilizzata come pianta medicinale dai Greci stessi.
Gli Antichi Romani trovarono altre virtù di questo ortaggio: veniva usato come antidoto, o addirittura come trattamento preventivo per l’ubriachezza e come disinfettante in caso di ferite sotto forma di impacco.



Del cavolo verza non si butta via nulla, perfino le foglie esterne, alquanto fibrose possono essere riutilizzate in cucina per creare degli ottimi involtini ripieni.

La ricetta seguente è un tipico esempio di come sia possibile coniugare risparmio (in quanto gli ingredienti sono alquanto economici) e sapore in cucina.
Inoltre, è opportuno sottolineare che anche la polenta proviene da un “avanzo” di una cena precedente.
Ovviamente è anche possibile cucinarla “ex novo” per la ricetta, ma, a mio modesto parere, è meglio utilizzare la polenta del giorno prima.





Involtini di cavolo verza con salsiccia e polenta

Per 4 persone

1 verza
350 gr di salsiccia fresca
6 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
30 gr di burro
1 spicchio d'aglio
250 gr di farina di mais per polenta (macinata grossa)
1,5 l acqua
sale
olio extravergine d'oliva


Se decidete di riutilizzare la polenta avanzata dal giorno prima, tagliare 2 - 3 fette non troppo spesse. Non è necessario essere accurati in questa operazione, anzi, anche se la polenta si sbriciola va benissimo.
In alternativa, preparare la polenta facendo bollire l'acqua salata in una casseruola dai bordi alti. Versare la farina di mais a pioggia e mescolare per non far formare grumi.
Cuocere a fuoco medio per circa 45 minuti sempre continuando a mescolare ripetutamente con un cucchiaio di legno.
La polenta sarà pronta quando inizia a staccarsi dai bordi della casseruola.
Versare la polenta su un tagliere di legno e lasciarla intiepidire.

Lavare la verza e separare delicatamente le foglie. Scottarle in acqua bollente e salata per 5 minuti, quindi scolarle e farle asciugare su un canovaccio pulito.
Far cuocere in un padella la salsiccia spellata e ridotta a pezzettini con un filo d'olio extravergine e uno spicchio d'aglio.
Amalgamare la salsiccia con la polenta in una ciotola.

Dividere l'impasto così ottenuto sulle foglie di verza ed arrotolarle a formare un involtino. Tenere in forma con uno stuzzicadenti. 
Infornare gli involtini di verza a 180° per circa 5 minuti.


domenica 17 dicembre 2017

Noi di Piacenza… quelli che mangiano i tortelli con la coda

I tortelli tipici della provincia di Piacenza sono dei tortelli a forma di caramella. In dialetto, proprio per questa loro caratteristica vengono chiamati turteil cun la cuà, cioè tortelli con la coda.
A causa di questa loro forma alquanto insolita non possono essere fatti che a mano.
Il ripieno è costituito da ricotta, spinaci (o bietole) e un pizzico di noce moscata. Si possono quindi definire tortelli “di magro” perché al loro interno non c’è macinato né prosciutto né carne.
Durante la stagione estiva possono essere serviti con burro fuso, qualche foglia di salvia e una spolverata di grana padano grattugiato, in autunno, invece, sono accompagnati da un sugo prelibato, fatto con i pomodori e i funghi porcini.




I tortelli di Piacenza hanno alle spalle quasi settecento anni di storia e un’origine nobile: nacquero nella cucina del castello di Vigolzone di proprietà degli Anguissola, la famiglia che governò Piacenza dal XIV al XVII secolo. Fu una cuoca di corte a cucinarli per la prima volta, in un giorno non precisato del 1351, in onore di un ospite davvero illustre: Francesco Petrarca.
La donna, lavorando presso altre casate nobili d’Italia, aveva imparato la ricetta degli gnocchi di ricotta e bietole (diffusi ad esempio ad Alessandria col nome di rabaton o in Toscana con quello di gnudi) e decise di replicarla per stupire il grande poeta e scrittore.
Poichè all’epoca non esistevano le posate e gli gnocchi erano abbastanza scomodi da maneggiare, li racchiuse in una sottile sfoglia di pasta all’uovo, a cui diede la forma di un paffuto tortello intrecciato.

A Vigolzone i tortelli hanno ricevuto, nel 2006, la Denominazione Comunale di Origine, insieme ad un’altra specialità del posto, la squisita torta con i fichi freschi, nata nel XVII secolo nel convento dei padri Gesuiti della frazione di Albarola.


TORTELLI PIACENTINI

Dosi per circa 120 tortelli

Per la pasta all'uovo

500 gr farina
5 uova

Per il ripieno

400 gr ricotta
2 uova
2 mazzi di bietole fresche
200 gr Parmigiano Reggiano grattugiato
noce moscata q.b.
sale

Preparare l'impasto facendo appassire in un tegame le bietole con una spruzzata di sale per circa 5 – 6 minuti.
Strizzarle e tritarle molto finemente con la mezzaluna.
Amalgamare il trito così ottenuto con le uova, la ricotta, il formaggio e un poco di noce moscata.
Preparare l'impasto per la pasta all'uovo e tirare una sfoglia sottile. Dividerla in strisce di circa otto cm. e ricavarne tanti rettangolini.
Su ogni riquadro mettere un cucchiaino di ripieno. Ripiegare la pasta chiudendo il tortello a triangolo, poi girare i due angoli e formare una treccia o meglio due code ben strette e sottili arricciandole tra il pollice il medio e l'indice. 



Metterli a riposare su una spianatoia di legno spruzzata di farina fino al momento di cuocerli.
Cuocere i tortelli in acqua bollente salata. 
Scolare i tortelli in una zuppiera di ceramica e versarvi sopra il condimento (burro alla salvia oppure sugo di funghi).




mercoledì 13 dicembre 2017

La Santa della luce: Santa Lucia

Una decina di giorni prima di Natale , si celebra in diverse parti d'Italia, ma anche d'Europa, Santa Lucia, santa diventata molto popolare per una serie di circostanze non tanto dovute alla sua figura storica ma in quanto in collegamento con il simbolismo sostiziale.

Lucia è effettivamente stata una martire cristiana, morta durante le persecuzioni di Diocleziano a Siracusa nel 304. Gli episodi della sua vita sono riportati da due passiones, la prima greca e la seconda latina.
Entrambe le versioni sono, probabilmente, poco rispondenti alla verità storica, in particolar modo quella latina, infarcita di leggende come era usanza per le altre vite di santi dei primi secoli.
Secondo la fonte greca, Lucia era una giovane e ricca siracusana, fidanzata con un concittadino.
Durante un pellegrinaggio al sepolcro della martire Agata a Catania, intrapreso per chiedere la guarigione della madre malata, la santa apparve alla giovane.
Nella visione Agata preannunciava a Lucia anche il suo martirio e il patronato sulla sua città natale. Ritornata a Siracusa e constatata la guarigione della madre, Lucia annuciò la sua ferma decisione di consacrarsi a Cristo e di donare tutti i suoi averi ai poveri. Il pretendente, insospettito e preoccupato nel vedere la sposa donare tutto il suo patrimonio, e, dopo aver verificato il rifiuto di Lucia alle nozze, la denunciò come cristiana. Erano, infatti, in vigore i decreti di persecuzione dei cristiani emanati dall'imperatore Diocleziano.
In tribunale il giudice non riuscì a far abiurare la giovane, né con le lusinghe, né con le minacce. Venne quindi condannata ad essere esposta tra le prostitute, ma quando i soldati si apprestarono a condurla via, si accorsero che Lucia era diventata pesante e irremovibile come una roccia. Nemmeno una coppia di buoi riuscì a smuoverla.
Lucia allora fu sottoposta al supplizio del fuoco, ma ne rimase totalmente illesa, infine fu condannata a morte per decapitazione o, secondo le fonti latine, per jugulatio (cioè sgozzamento mediante pugnale).



La sua festa liturgica ricorre il 13 dicembre, giorno del suo martirio.
Antecedentemente all'introduzione del calendario gregoriano (1582), la festa della Santa cadeva in prossimità del solstizio d'inverno (da cui il detto "santa Lucia il giorno più corto che ci sia"), ma non vi coincise più con l'adozione del nuovo calendario (differenza di 10 giorni).
La celebrazione della festa in un giorno vicino al solstizio d'inverno è probabilmente dovuta alla volontà cristiana di sostituire antiche feste pagane che celebravano il ritorno della luce.
Il culto di santa Lucia infatti presenta diverse affinità con il culto di Artemide, l'antica divinità greca venerata a Siracusa nell'isola di Ortigia. Ad Artemide, come a santa Lucia, sono sacre la quaglia e l'isola di Ortigia. Artemide e Lucia sono entrambe vergini. Artemide è inoltre vista anche come dea della luce mentre stringe in mano due torce accese e fiammeggianti.
La santa siracusana era perfetta per sostituire queste tradizioni pagane. Il suo nome evocava la luce: deriva, infatti dal latino Lùcia, la cui radice è proprio lux, cioè luce.
Nel periodo storico in cui la sua festa coincise con il periodo sostiziale, la sua figura divenne anche promessa e segno di luce materiale, divenne cioè annunciatrice della fine delle tenebre invernali e dei futuri giorni più chiari.
In tal senso si colloca , quindi, il suo patronato sulla vista e su tutto ciò che è connesso con la luce. Per meglio rafforzare questa tradizione ed estirpare completamente tutti i culti pagani dei “portatori di luce”, un agiografo sconosciuto ha aggiunto alla passio di Lucia un episodio probabilmente mai avvenuto.
La giovane, infatti, per non cedere alle suppliche del fidanzato, si sarebbe strappata gli occhi.
Nell'iconografia cristiana, quindi, Lucia appare con vari attributi connessi sia al suo martirio, come la palma ed il pugnale o spada che la trafisse, sia al suo ruolo di “messaggera di luce” come la lampada (simbolo che richiama la dea Artemide) ed il piattino recanti i suoi occhi.




Alla festa di Santa Lucia sono connesse molte usanze, come quella di non mangiare il pane o farinacei il 13 dicembre, in ricordo della carestia che affamò la Sicilia nel XVII secolo e che fu risolta, si dice, proprio dall'intervento della santa che convogliò nei porti una flotta di navi cariche di frumento.
A Palermo, ad esempio, si mangia la cuccìa, un piatto a base di chicchi di frumento messi a macerare il giorno precedente.



Il culto della santa si è diffuso, a partire dal medioevo, soprattutto nell'Italia del nord ed in Europa.
Nel Veneto, Lombardia e in Emilia Romagna, in particolare in provincia di Piacenza, esiste una tradizione legata ai "doni di santa Lucia", figura omologa dei vari San Nicola, Babbo Natale, Gesù Bambino, Befana e altri che, durante i secoli, hanno sostituito l'antico culto degli avi nell'immaginario infantile.
Leggenda vuole che quando la giovane Santa Lucia salì in Paradiso fosse molto triste, ragion per cui San Pietro le concesse di tornare sulla Terra in groppa ad un asinello per una notte all'anno, quella tra il 12 ed il 13 dicembre, e di portare con sé doni per tutti i bambini. In cambio a Lucia vengono lasciati mandarini e biscotti e al suo asinello fieno e zuppa.



In Svezia, Lucia è molto venerata, sia dalla chiesa cattolica, che da quella luterana. I bambini preparano biscotti e dolciumi (tra questi, delle focaccine allo zafferano e all'uvetta chiamate lussekatter) a partire dal 12 dicembre. La mattina del 13, la figlia maggiore della famiglia si alza ancor prima dell'alba e si veste con un lungo abito bianco legato in vita da una cintura rossa, a ricordo del sangue versato dalla martire; la testa è ornata da una corona di foglie e da sette candele utili per vedere chiaramente nel buio. Le sorelle, che indossano una camicia bianca, simboleggiano le stelle. I maschi indossano cappelli di paglia e portano lunghi bastoni decorati con stelline.
La bambina vestita come santa Lucia sveglia gli altri membri della famiglia e serve loro i biscotti cucinati il giorno precedente.



Il nome di questi dolcetti allo zafferano pare che significhi “gatti di Lucifero” e non di Lucia, come si sarebbe portati a credere. Si tramanda, infatti, una leggenda di origini tedesche secondo la quale il diavolo, assunte le sembianze di un gatto, usava maltrattare e picchiare i bambini cattivi; quelli buoni, al contrario venivano premiati da Gesù proprio con questi biscotti a forma di esse.




Ogni anno, inoltre, viene eletta la Lucia di Svezia che raggiungerà la città siciliana di Siracusa per partecipare alla processione dell'ottava, in cui il simulacro di santa Lucia viene ricondotto in Duomo con una enorme processione accompagnata da fuochi d'artificio, che esprimono perfettamente il carattere della festa all'insegna della luce.

mercoledì 6 dicembre 2017

Anolini di Natale: una ricetta tradizionale dell'Antico Ducato di Parma e Piacenza

Gli anolini sono una tipologia di pasta ripiena originaria dei territori dell'antico Ducato di Parma e Piacenza.
Si tratta, ovviamente, di un piatto con radici antiche, tramandato da generazioni nelle famiglie dell'Emilia. 
La tradizione vuole che durante la vigilia di Natale la famiglia si riunisca per la preparazione degli anolini di Natale o anvëin d' Nadäl come sono definiti nel Piacentino.
E’ un piatto ricco ed elaborato, come del resto molti piatti proposti nelle festività importanti, ma l'insieme degli ingredienti ne fa un piatto raffinato.
Sono preparati disponendo palline di un ripieno formato da stracotto, uova e formaggio su una sfoglia di pasta ripiegata su se stessa. Si taglia attorno al ripieno con appositi stampini metallici, che possono essere circolari o con bordi seghettati; la pressione dello stampo salda assieme i bordi della sfoglia.




Il termine deriverebbe dal latino anulus ossia anello. Nasce come raviolo o pasta ripiena nel XII secolo, come riporta Salimbene De Adam nella sua Cronica del 1284.
Nel XVI secolo Bartolomeo Scappi li cita come piatto che compare sulle mense dei re e dei papi.
Nel 1536,infatti, mentre era al sevizio del Cardinale Lorenzo Campeggi, la prima ricetta scritta degli anolini compare nella sua Opera letteraria di cucina.
Alla corte del Duca Ranuccio Il Farnese nel 1659 sono descritti come un piatto cucinato con ripieno di formaggio Parmigiano e carne di cappone.
Più tardi, anche alla corte di Maria Luigia Duchessa di Parma e Piacenza (1791-1847) si mangiavano gli anolini e si collega ad essa la frase "Solo al re Anolino la Duchessa porge il suo inchino".


La tradizione degli anolini si ritrova sia in provincia di Piacenza sia di Parma. In dialetto piacentino sono detti anvëin, mentre in parmigiano anolén. Esiste anche una ricetta della provincia di Cremona nota come marubini (o in cremonese marubén).
La variante piacentina, è leggermente più piccola ed è a forma di mezzaluna seghettata, mentre nel parmense sono più grandi, rotondi e con bordi lisci.
Il bordo seghettato possiede il vantaggio di avere una quantità maggiore di sfoglia a parità di ripieno e una tenuta migliore della chiusura rispetto a quello liscio.




In Val d'Arda è invece diffusa una variante che non contempla la presenza della carne nel ripieno, una versione più magra quindi, composta solo da Grana Padano molto stagionato e pane grattugiato.

Su proposta della Regione Emilia-Romagna il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha riconosciuto gli anolini come uno dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani tipici delle province di Piacenza e di Parma con due voci distinte,proprio per tutelare le differenti ricette, affiancate dalla traduzione nei rispettivi dialetti


ANOLINI

Dose per circa 300 anolini

Per il ripieno
250 gr pan grattato (possibilmente casalingo)
250 gr Parmigiano Reggiano grattuggiato (stagionatura 36 mesi)
noce moscata q.b.
3 uova
sale q.b.
250 gr di stracotto

Per lo stracotto
100 gr di polpa di manzo
100 gr di polpa di maiale
50 gr di polpa di cavallo
1 gamba di sedano
1 carota
1 cipolla
1 foglia d'alloro
qualche bacca di ginepro
2 – 3 chiodi di garofano
1 bicchiere di vino rosso

Per la pasta

800 gr farina O
8 uova


Preparare dapprima lo stracotto.
Tagliare a dadolata il sedano e la carota. Infilzare la cipolla con i chiodi di garofano.
In un tegame di coccio far rosolare le carni con le verdure ed un filo d'olio extravergine d'oliva.
Aggiungere il bicchiere di vino, un presa di sale, la foglia d'alloro e le bacche di ginepro.
Incoperchiare e far sobbollire per almeno 2 – 3 ore .
Controllare il livello dei liquidi e, se necessario aggiungere un po' di acqua.
A cottura ultimata la carne dovrà essere molto morbida.
Tritare finemente lo stracotto, mentre con il sugo rimasto bagnare il pane grattugiato ed unirlo, a sua volta, allo stracotto stesso, insieme alle uova, al formaggio ed alla noce moscata.
Lavorare fino ad ottenere un impasto omogeneo.
Preparare la pasta e tirare una sfoglia sottile;
Disporre su di un lato di essa tante palline di ripieno (grandi circa come un cucchiaino da caffè) distanti 2 – 3 cm l'una dall'altra.



Ripiegare la pasta su se stessa e premere intorno al ripieno in modo da far uscire l'aria e da assicurare la massima coesione durante la cottura. 
Tagliare gli anolini con l'apposita forma rotonda e seghettata.
Cuocere gli anolini in un brodo preparato con cappone, manzo e vitello.

Anolini e tradizionale attrezzo per tagliarli



Una piccola annotazione finale. Gli anolini richiederebbero per la cottura il “brodo di quarta” o “di terza”, vale a dire un brodo preparato rispettivamente con quattro o con tre tipi di carni.
Tradizionalmente il brodo “di quarta” era preparato con pollo, manzo, bue grasso e costoletta di maiale, mentre quello “di terza” con cappone, manzo e costine di maiale.

Poichè risultano per entrambe le versioni dei brodi molto saporiti ma anche molto grassi, nella mia famiglia si è sempre sostituta la carne di maiale con la carne di vitello, in modo da ottenere un brodo un po' più leggero.

domenica 26 novembre 2017

Gli auguri di carta

C'era un tempo in cui gli auguri non arrivavano in tempo reale sui telefonini o nelle caselle e-mail. Anni fa ci si affidava all'invio di cartoline tramite posta che, magari, per giungere a destinazione ci impiegavano anche una settimana.

C'era un tempo in cui gli auguri, forse, erano più sentiti e più sinceri perché farli era un procedimento lungo: dapprima si doveva decidere a chi inviare le cartoline, in seguito scegliere l'immagine più adatta, poi scrivere “in bella grafia” gli auguri ed infine imbucarle nella cassetta della posta.
Insomma era proprio il fatto di aver dedicato una parte della propria giornata a qualcuno che rendeva questi auguri così speciali.



Oggi basta premere distrattamente qualche tasto e gli auguri sono pronti ad essere inviati a tutto il mondo.
Eppure quanti di questi auguri virtuali saranno gelosamente conservati come invece accadeva per le cartoline natalizie?

Anche le immagini erano molto evocative e pregne di un fascino particolare.
Vi erano fiabeschi paesaggi innevati, bambini in veste di pastorelli, alberi di Natale e slitte colme di regali trainati da cavalli con eleganti bardature, tutti disegnati con mano un po' ingenua.




Erano importanti queste cartoline.
Una volta ricevute diventavano quasi un semplice regalo di natale, utilizzate per abbellire la casa o raccolte in album creati ad hoc, realizzati in cartoncino con apposite fessure in cui inserire gli angoli dell'immaginetta.



La tradizione di inviare auguri, comunque, ha origini remote.
E' un antichissimo costume nato in Cina grazie alla scoperta della xilografia che diffuse largamente l'uso di realizzare piccole immagini da tenere in casa o da appendere sopra le porte d'ingresso.
A partire dal Quattrocento tale usanza si diffuse nei paesi di lingua tedesca, in cui per il nuovo anno si usava regalare delle piccole stampe in cui erano mescolati elementi cristiani ed elementi di tradizione pagana.
All'inizio dell'Ottocento, con il perfezionamento dei metodi di stampa, i commercianti cominciarono a riprodurre la stessa immagine su vasta scala, sbizzarrendosi sia sui soggetti sia negli effetti speciali, utilizzando le tecniche del collage di vari elementi quali stoffe, velluti, strass, ma anche impiegando parti mobili mosse da sottili lamelle di carta.
Verso la metà del secolo, grazie allo sviluppo della stampa, l’invio di biglietti per le Sante Feste divenne un fenomeno di massa.



La prima cartolina augurale “popolare” fu creata nel 1870 da un litografo inglese, John S. Day, che stampò su un’ufficiale e nuda cartolina postale da mezzo penny una cornicetta composta da vischio e agrifoglio, riportante nel centro la classica frase “Buon Natale e felice Anno Nuovo”.



domenica 12 novembre 2017

San Martino: tra leggenda e tradizioni popolari

Martino di Tours, nacque a Sabaria in Pannonia, nell'odierna Ungheria nel 316 o nel 317 . Il padre era un tribuno dell'Impero Romano. Ancora bambino si trasferì coi genitori a Pavia, dove suo padre aveva ricevuto un podere in quanto ormai veterano, e in quella città trascorse l'infanzia.
Benché la sua famiglia fosse pagana, egli diventò cristiano anche se non si fece battezzare fino all'età adulta.
Nel 331 un editto imperiale obbligò tutti i figli di veterani ad arruolarsi nell'esercito romano.
Il giovane Martino fu reclutato nelle Scholae imperiali ed inviato in Gallia, presso la città di Amiens, dove trascorse la maggior parte della sua vita da soldato. 
Faceva parte, all'interno della guardia imperiale, di truppe non combattenti che garantivano l'ordine pubblico, la protezione della posta imperiale, il trasferimento dei prigionieri o la sicurezza di personaggi importanti.
Proprio nella città di Amiens nell'odierna Francia avvenne l'episodio più ricordato della vita del Santo: la condivisione del suo mantello con un povero.

Nel rigido inverno del 335 Martino incontrò un mendicante seminudo. Vedendolo sofferente, tagliò in due il suo mantello militare (la clamide bianca della guardia imperiale) e lo condivise con il mendicante. La notte seguente gli apparve in sogno Gesù rivestito della metà del suo mantello militare. Quando Martino si risvegliò il suo mantello era tornato miracolosamente integro.



Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi.
Il termine latino che indicava il mantello corto, cappella, venne, così, esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di San Martino (i cappellani, appunto) e da questi venne applicato all'oratorio reale chiamato cappella.
Secondo le tradizioni il sogno segnò profondamente Martino, che si fece battezzare ed abbracciò completamente la vita cristiana.
Terminato il periodo obbligatorio di servizio militare, a circa 40 anni lasciò l’esercito e si recò a Poitiers dal Vescovo Ilario.
L'ex soldato si impegno nella lotta all'eresia ariana (che era stata condannata dal Concilio di Nicea nel 325) e per questo venne perseguitato e scacciato sia dalla Francia, sia da Milano,dove si era rifugiato, poiché in tali luoghi vi erano stati eletti vescovi ariani.
Nel 357 Martino si trova in Liguria e precisamente sull'Isola Gallinara di fronte ad Albenga (SV) dove trascorre 4 anni come eremita.
Tornato a Poitiers ,nel 361 il Vescovo gli concesse di ritirarsi in un eremo a 8 chilometri dalla città, a Ligugé.
Nel 371 gli elettori riuniti a Tours lo eleggono Vescovo. A questo evento è legato il tradizionale cibo nordico della festa di San Martino, cioè l'oca. Secondo la leggenda, infatti, Martino era assai restio ad assumere tale carica e, pertanto, si nascose in una stalla con le oche. Le bestiole, però, fecero rumore, rivelando così il nascondiglio alle presone che lo stavano cercando.



Martino, comunque, assolse le funzioni episcopali con autorità e prestigio, senza però abbandonare le scelte monacali. Continuò a vivere come un eremita a tre chilometri dalla città. In questo ritiro, venne ben presto raggiunto da numerosi seguaci. Si creò, così, un monastero, denominato in latino Maius monasterium (monastero grande), in seguito noto come Marmoutier, di cui egli divenne abate e in cui impose una regola di povertà, di evangelizzazione e di preghiera.



Se da un lato Martino rifiutò il lusso e l’apparato di un dignitario della Chiesa, dall’altra non trascurò le sue funzioni episcopali. A Tours respinse sempre le visite di carattere mondano, ma, allo stesso tempo, si occupò dei prigionieri, dei condannati a morte, dei malati e dei morti, che guarì e, si dice, resuscitò. La leggenda tramanda che perfino i fenomeni naturali gli obbedivano.
Marmoutier, al termine del suo episcopato, conta 80 monaci, costituendo la prima comunità monastica in terra francese.
Il vescovo Martino morì l’8 novembre 397 a Candes-Saint-Martin, dove si era recato per mettere pace fra il clero locale.
I funerali si celebrarono a Tours 3 giorni dopo, l'11 novembre, e proprio tale data venne scelta come festa del Santo.
Divenne ben presto una festa straordinaria in tutto l'Occidente, grazie alla popolare fama di santità del vescovo e al numero notevole di cristiani che portavano il nome di Martino.

Martino è uno fra i primi santi non martiri proclamati dalla Chiesa e divenne il santo francese per eccellenza.

In Italia il culto del Santo è legato alla cosiddetta “estate di San Martino”, cioè un paio di giorni di tempo mite e soleggiato che si manifesta, in senso meteorologico, all'inizio di novembre e dà luogo ad alcune tradizionali feste popolari.
Una vecchia usanza prevedeva,infatti, che tutti, compresi i bambini, mangiassero le castagne e bevessero vino. Secondo alcuni storici questi festeggiamenti derivavano da una festa latina della durata di un mese che iniziava il 24 novembre (festa di Brumalia), e che venne, in seguito, rinominata dai cristiani Martinalia in onore appunto di San Martino ( vedi il libro “Storia di Vari costumi sacri e profani dagli Antichi fino a noi pervenuti” Padre Michelangelo Carmeli,1750).
La leggenda tramanda che la breve interruzione della morsa del freddo, si ripeta ogni anno per commemorare il gesto magnanimo e generoso del santo quando divise il suo mantello con il povero mendicante.



Il giorno dell’11 novembre coincideva inoltre con la fine delle celebrazioni del Capodanno dei Celti, il “Samuin”, che si svolgevano proprio nei primi dieci giorni del mese: il retaggio di questa festa pagana era ancora presente nell’Alto Medioevo, e la Chiesa sovrappose il culto cristiano del santo più amato dell’epoca alle tradizioni celtiche. Molte usanze di ascendenza precristiana sopravvissero così nel corso dei secoli, confluendo nelle celebrazioni di san Martino.
La festa di San Martino era una delle più importanti feste dell’anno, una sorta di capodanno contadino nel corso del quale si mangiava e beveva in abbondanza. Anticamente infatti il periodo di penitenza e digiuno che precede il Natale cominciava il 12 novembre e prendeva il nome di Quaresima di san Martino.
A incoraggiare il momento di baldoria era anche la conclusione delle attività agricole legate all’inizio dell’autunno, nonché il clima più mite che solitamente caratterizza queste giornate. In questo periodo inoltre occorreva finire il vino vecchio per pulire le botti e lasciarle pronte per la nuova annata, e al contempo si iniziava a bere il vino novello. L’atmosfera era simile a quella di un giovedì grasso, come ci testimonia il dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio dal titolo Il vino di San Martino: il popolo in festa si precipita a tracannare il vino nuovo, mentre sulla destra vediamo il santo a cavallo.



Nel veneziano l'11 novembre è usanza preparare il dolce di San Martino, un biscotto dolce di pasta frolla con la forma del Santo con la spada a cavallo, decorato con glassa di albume e zucchero ricoperta di confetti e caramelle.



A Palermo si preparano i biscotti di San Martino abbagnati nn'o muscatu (inzuppati nel vino moscato di Pantelleria), a forma di pagnottella rotonda grande come un'arancia e con l'aggiunta nell'impasto di semi d'anice (o finocchio selvatico) che conferisce loro un sapore e un profumo particolare.




In molte regioni d'Italia l'11 novembre è simbolicamente associato alla maturazione del vino nuovo (si ricordi il proverbio "A San Martino ogni mosto diventa vino") e questo diventava un'occasione di ritrovo e festeggiamenti.
Nel nord Italia, specialmente nelle aree agricole, fino a non molti anni fa tutti i contratti (di lavoro ma anche di affitto, mezzadria, ecc) avevano inizio e, conseguentemente anche fine l'11 novembre, data scelta proprio in quanto i lavori nei campi erano già terminati senza però che fosse già arrivato il clima rigido dell'inverno. Per questo, scaduti i contratti, chi aveva una casa in uso la doveva lasciare libera proprio l'11 novembre e non era inusuale, in quei giorni, imbattersi in carri strapieni di ogni masserizia che si spostavano da un podere all'altro, facendo "San Martino", nome con cui popolarmente si indicava tale trasloco.
Ancora oggi in molti dialetti e modi di dire del nord "fare San Martino" mantiene il significato di traslocare.



venerdì 3 novembre 2017

San Torpete: il santo che accomuna Pisa, Genova e la Provenza (ed a Genova ha una chiesa a lui dedicata)

San Torpete conosciuto anche come Torpè, Torpes, Torpezio, Tropezio, Tropez (nome latino Gaius Silvius Torpetius), è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. 
Fu martirizzato presso Pisa durante il regno dell'Imperatore Nerone

Gli Atti del martirio di S. Torpete e il Martirologio Romano costituiscono le uniche scarse fonti sulla figura di Torpete.

In realtà, al di là della tradizione leggendaria, di questo santo non sappiamo niente di certo, neppure quando è vissuto, perché i dati biografici e storici sono pressochè inesistenti. Probabilmente la sua leggenda è nata solo per giustificare la presenza del suo culto a Pisa fin dall’alto medioevo e fu retrodatata al tempo di Nerone, emblema dell’imperatore crudele primo grande persecutore dei cristiani.

San Torpè o Torpete era un soldato romano. Egli visse al tempo in cui Pietro apostolo, prima di raggiungere Roma, si fermò presso la Basilica di San Piero a Grado vicino all'odierna città di Pisa.
Torpè, convertitosi al Cristianesimo, fu battezzato dal religioso Antonio, eremita sui monti tra Pisa e Lucca.
Diventato cristiano, Torpete praticava di nascosto la nuova fede religiosa, il che non gli impediva di svolgere un ruolo importante presso l’amministrazione romana.
Tornato a Pisa, fu riconosciuto cristiano dal prefetto della città, Satellico, il quale tentò di riportarlo alla religione pagana. A nulla valsero i suoi sforzi: né le false promesse, né le torture convinsero Torpete a rinnegare la sua nuova fede e, quindi, fu martirizzato per decapitazione presso San Rossore il 29 aprile 68.
Dopo la sua morte, il corpo di Torpete fu abbandonato sopra un'imbarcazione, insieme ad un gallo e ad un cane, alla foce dell'Arno.
La barca si arenò nelle vicinanze di una piccola cittadina della Provenza chiamata Heraclea e ribattezzata Saint-Tropez in onore del Santo.
La testa del martire che era stata lasciata presso la foce dell’Arno, fu successivamente raccolta dai cristiani e collocata dapprima in una cappella eretta in suo onore in San Rossore, quindi in una seconda cappella in prossimità dell’attuale chiesa di San Ranierino, infine nell’attuale chiesa di San Torpè, presso i cosiddetti Bagni di Nerone, ruderi romani che probabilmente sono all'origine di tutta la Passio, costruita radunando luoghi comuni della tradizione martiriale.




Il santo pisano si distinse per alcuni segni prodigiosi: esemplare quello del 29 aprile 1633, quando liberò Pisa colpita da una gravissima peste.

Per ricordare il santo, tutti gli anni, il 29 aprile un gruppo di pellegrini francesi si reca a Pisa, mentre il 16 maggio una delegazione comunale pisana raggiunge Saint-Tropez per festeggiare il patrono della città.
La festa, chiamata Bravade, dura tre giorni e mostra la devozione degli abitanti di Saint-Tropez per il santo pisano.



Esistono tre principali chiese dedicate al santo martire pisano; esse si trovano a Pisa, a Genova e a Saint-Tropez.
A Pisa è presente la Chiesa e convento di San Torpé, in via Fedeli. 
Nel centro storico di Genova, invece, sorge la Chiesa di San Torpete.

Ma come si colloca la città di Genova all'interno di questa narrazione?

Il culto di San Torpete fu importato a Genova dai mercanti pisani che eressero in suo onore una chiesa nella piazza del mercato, non lontana dalla loggia che i Pisani possedevano nell’area curiale della famiglia di nobiltà mercantile dei Della Volta .

La famiglia dei Della Volta, infatti, già proprietaria dal X secolo di feudi nella Valbisagno, aveva la zona dell'antico Forum Sancti Georgii sotto la propria giurisdizione e nel 1150 decise di allearsi con la colonia pisana e favorirne l'insediamento: fu così che i pisani si aggiunsero all'antica nobiltà locale, ai fiorentini e ai lucchesi e cominciarono a gestire i propri traffici dalla loggia del forum.

La chiesa di san Torpete è con buon margine di certezza una delle parrocchie più antiche di Genova, poiché già nel 935 esistono notizie relative a una porta delle mura urbane dedicata al martire pisano.
La chiesa originale era edificata in stile romanico, con la facciata a bande bianche e nere rivolta a ponente secondo la consuetudine dell'epoca.
Dopo alcuni anni i Pisani la cedettero ai Della Volta (che in seguito avrebbero assunto il nome di Cattaneo), che ne fecero la propria chiesa gentilizia, ottenendone nel 1308 il giuspatronato, che conservano formalmente ancora oggi.
Nel 1180 avvenne la consacrazione da parte dell'arcivescovo Ugone Della Volta, come ricorda un'iscrizione collocata sopra la porta laterale della chiesa, che divenne il luogo di culto della comunità mercantile pisana di Genova per quasi due secoli.
Nel 1290 sulla facciata di questa chiesa, furono esposti alcuni anelli della catena del porto pisano, portati a Genova come trofeo dalla flotta di Corrado Doria che aveva forzato il porto della città rivale.  
Dopo i gravi danni causati dal bombardamento navale francese del 1684 vennero eseguiti alcuni restauri all'edificio medievale.
Circa cinquant'anni dopo, nel 1730, Cesare Cattaneo decise di ricostruire totalmente la chiesa.
Il progetto, affidato a Giovanni Antonio Ricca (detto il Gobbo) (1688-1748), fu realizzato tra il 1730 e il 1733.



Con la ricostruzione settecentesca fu attuato un radicale stravolgimento della struttura della chiesa medioevale: la facciata, che prima si apriva sul lato di ponente, venne spostata a quello settentrionale, prospiciente la piazza. Lo stile della facciata è barocco, con aggiunte posteriori neoclassiche (timpano, nicchie e paraste) realizzate intorno alla metà dell'Ottocento, periodo a cui appartiene anche la grande cupola ellittica, con copertura in scaglie d'ardesia.
L'interno, interamente coperto dalla cupola, è un unico vano a pianta ellittica.

La nuova chiesa, a pianta centrale e con un diverso orientamento, comprende tutta l'area della precedente più quella di una palazzina adiacente acquistata dai Cattaneo, sulle cui fondamenta fu realizzata la canonica. Al termine dei lavori, il 23 novembre 1733 la chiesa venne nuovamente consacrata ed in quella circostanza al titolo di S. Torpete fu aggiunto quello di Santa Maria Immacolata.



Tra le opere conservate al suo interno, nell'abside è collocato il dipinto San Torpete illeso tra le fiere di Giovanni Carlone (il quadro è l'unica opera all'interno della chiesa che raffigura il santo titolare), nella cappella di destra Madonna con bambino tra San Tommaso di Canterbury, Santa Lucia e San Giovanni Battista (fine del XVI secolo, incertamente attribuito ad Andrea Semino) e in quella di sinistra San Filippo Neri in estasi (attribuito alla scuola di Giovanni Battista Paggi, del XVII secolo).
Sull'altare maggiore è posto un crocifisso ligneo di anonimo scultore genovese (1790-1810).

San Torpete illeso tra le fiere

Madonna con bambino tra San Tommaso di Canterbury, Santa Lucia e San Giovanni Battista


In controfacciata è collocata una statua lignea policroma della Madonna della Provvidenza, di Giovanni Battista Drago (1854), rivestita con abiti ed ornamenti, un tempo oggetto di grande devozione col tempo abbandonata in favore del culto della Madonna della Guardia.



La chiesa è una delle poche a pianta centrale presenti a Genova.

La città di Genova, però, è strettamente collegata anche alla cittadina francese di Saint – Tropez.
L’erudito Luigi Tomaso Belgrano ricorda con orgoglio i forti legami esistenti con la comunità genovese:
Nell'anno 1470 Giovanni Cossa, luogotenente generale del re Renato in Provenza, concedette in feudo a Raffaello da Garessio la signoria del luogo di Saint-Tropez, allora deserto; ed il Garessio vi condusse dalla riviera ligustica ben sessanta famiglie, le quali edificaronvi il presente borgo ed una nuova chiesa in onore di quel santo.
L'origine adunque della moderna città di Saint-Tropez è cosa nostra; ed i suoi abitatori, con nobile compiacenza, ricordano tuttora i vincoli onde sono a noi collegati. Ne è prova la Società delle regate, ivi costituitasi nel 1862; la quale fondandosi appunto su questi legami, chiedeva per mezzo del Maire al nostro Municipio il dono di due stendardi, l'uno divisato ai colori nazionali e l'altro ornato della temuta croce dell'antica Repubblica Genovese, da distribuirsi in premio a coloro che avessero trionfato nelle solenni corse del 18 maggio 1864. Il Municipio assentiva di buon grado alla domanda; e spediva a Saint-Tropez due superbi vessilli, i quali venivano accolti da que' cittadini col più vivo trasporto, in mezzo alle grida di evviva alla Metropoli della Liguria.

(L.T.Belgrano, Della vita privata dei Genovesi, Genova 1875, p.48, n.3)