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sabato 29 aprile 2017

Un piatto per chi ha fegato… ma non deve parlare in pubblico

Oggi ho cucinato un piatto tipico della tradizione ligure: il fegato all'aggiadda.
L'aggiadda (in italiano agliata) è una salsa che in Liguria viene preparata ed utilizzata come condimento per i lessi di magro o per il pesce.
Le origini di questa salsa sono antichissime. E' nota, infatti, sin dal Medioevo dove veniva usata sia come condimento sia come conservante. A Genova, infatti, nel 1152 ai macelli di Soziglia accompagnava fegati e frattaglie, che, come è noto, sono alimenti che deperiscono assai velocemente. Un tempo,inoltre, a bordo delle navi, si amalgamava con l’agresto cioè con succo di uve acerbe.
L'aggiadda, oggi, è considerata l'antenata del famoso pesto alla genovese.
Nella sua preparazione si può aggiungere anche la cagliata, ma io non ho ancora avuto “il coraggio” di provare.

Questo condimento, sebbene lo possa ricordare, non è assolutamente da confondere con la salsa aioli provenzale. In quest'ultima, infatti, si ha la presenza dei tuorli di uova sode che nella variante ligure sono completamente assenti.


In questa ricetta l'aggiadda è servita in abbinamento al fegato di vitellone.

Il fegato è un prodotto carneo appartenente al gruppo delle frattaglie e collocabile nel quinto quarto dell'animale.
E' un alimento ricco di proteine, vitamine A e B e sali minerali. Il suo consumo è consigliato specialmente alle persone che hanno carenza di ferro, alle donne in gravidanza ed ai ragazzi nell'età dello sviluppo. Esso è un ingrediente economico e molto versatile in cucina.
In Liguria le interiora in genere hanno sempre avuto un gran successo. Costano poco, sono molto saporite e gustose e possono essere cucinate in tantissimi modi.
L'unico vero problema del cosiddetto “quinto quarto” è la sua velocissima deperibilità.
E' essenziale, quindi, saper distinguere un "buon" fegato rispetto ad un alimento più vecchio o di dubbia qualità. I requisiti sono pochi e ben distinguibili:

1) Aspetto brillante, turgido e non disidratato
2)Colore tipico (spesso rosso vivo) e non pigmentato o maculato

A Genova, fortunatamente, esistono ancora molti macellai che sono sinonimo di garanzia di freschezza dell'alimento.
Il mio macellaio di fiducia è Luciano Carni, i cui proprietari acquistano gli animali macellati interi e poi ne sezionano le carni direttamente in negozio.
Spesso, quando vado al lavoro al mattino presto, mi capita di assistere all'arrivo in negozio delle mezze carcasse di bovini e vi assicuro che è uno spettacolo!



Fegato all'aggiadda genovese

Dosi per 3 persone

500 gr di fegato di vitellone
5 – 6 spicchi d'aglio
mollica di pane di 1 panino
olio
sale
aceto

Pestare nel mortaio gli spicchi d'aglio con la mollica di pane precedentemente imbevuta di aceto. Quando si è ottenuto una crema aggiungere ancora un po' di aceto per stemperare bene il tutto.
In un tegame far cuocere il fegato tagliato a fettine con olio e sale (occorreranno circa 3 – 4 minuti).
Quando mancherà poco alla fine della cottura, ammucchiare il fegato da una parte ed aggiungere al tegame l'aggiadda. Lasciare scaldare l'aggiadda e poi mescolare il tutto con il fegato.
Versare in un piatto e servire caldo.



Nella vera ricetta del fegato all'aggiadda genovese si dovrebbe pestare l'aglio con la mollica di pane e la milza scottata in acqua bollente. Purtroppo non ho trovato la milza e mi sono dovuto “accontentare” di utilizzare solo aglio ed aceto!

Un'ultima precisazione: le dosi di aglio e di aceto variano a seconda dei gusti personali. Se si utilizza l'aglio di Vessalico, però, consiglio di ridurre di 1 spicchio le dosi fornite, E' un aglio con un sapore ottimo ma molto persistente.

giovedì 27 aprile 2017

Torta Fedele

Cercando ispirazione per nuovi piatti o per menù a tema, mi sono imbattuto, qualche giorno fa, in un libro che avevo completamente dimenticato di possedere. Raccontava, in chiave moderna e rivisitata, di piatti che i pellegrini del Medioevo avrebbero potuto mangiare durante i loro spostamenti per raggiungere i luoghi di culto.
Mi ha incuriosito la ricetta della torta Santiago, un dolce preparato con farina di mandorle che si trova tutt'oggi nelle pasticcerie o nei panifici lungo il cammino di Santiago.

Volevo cimentarmi nella preparazione di questo dolce, che, a mio modesto parere, è perfetto per la colazione del mattino.
Controllando la dispensa mi sono accorto, però, che non avevo le mandorle. In compenso ho trovato un vasetto di ottime nocciole del Piemonte. Ho pensato di utilizzarle al posto delle mandorle e di sostituire l'aromatizzazione al limone con delle gocce di cioccolato.

Un'altra torta, insomma!!!

Controllando il calendario, ho notato che avevo cucinato questa variazione proprio il giorno di San Fedele (24 aprile)…. Ed allora perché non chiamarla ironicamente torta Fedele, visto che “fedele” alla ricetta originaria assolutamente non è!



Di seguito la ricetta

Torta Fedele

Dosi per una tortiera di circa 24 cm

175 gr di nocciole del Piemonte
2 uova intere
175 gr zucchero
100 gr farina 0
150 gr burro
1 cucchiaio di gocce di cioccolato (circa 50 gr)
15 gr lievito per dolci
zucchero a velo q.b.


Ridurre a polvere fine le nocciole in un mixer.
Montare gli albumi a neve ben ferma e metterli da parte.
Nella planetaria con la frusta a K lavorare il burro ammorbidito a temperatura ambiente con lo zucchero fino ad ottenere un composto morbido. Aggiungere i tuorli e continuare a mescolare. Aggiungere la farina 0 ed il lievito setacciati. Lavorare molto bene per circa 5 minuti.
Incorporare gli albumi. Aggiungere la polvere di nocciole e le gocce di cioccolato. Questi ultimi passaggi li ho effettuati lavorando a mano con una spatola. E' più difficoltoso, poiché il composto che si forma è alquanto colloso, ma non si corre il rischio di “smontare” gli albumi.
Imburrare lievemente una tortiera a cerniera di circa 24 cm di diametro. Disporre l'impasto nella tortiera cercando di livellarlo il più possibile.
Infornare in forno ventilato già caldo a 180° C per circa 30 minuti. Trascorso tale tempo spegnere il forno e lasciare raffreddare la torta al suo interno.
Dopo che il dolce si sarà raffreddato, cospargerlo di zucchero a velo.




E' un dolce davvero ottimo, che al sapore ricorda quello della “sbrisolona” mantovana, rimanendo, però, compatto e morbido. Ideale con il caffè del mattino!

martedì 25 aprile 2017

Una zuppa di sasso

Poichè sono un insegnante di scuola primaria, oggi vorrei parlare di un libro per bambini intitolato appunto “ Una zuppa di sasso”.
E' un libro scritto da Anaïs Vaugelade edito da Babalibri nel 2003.
Sebbene in un primo momento possa sembrare un racconto sulla cucina, non è assolutamente nulla di tutto ciò. E non insegna nemmeno che "a mensa si deve provare ad assaggiare ogni cibo". Ed allora che cos'è?
Durante quest'anno scolastico, le mie colleghe ed io lo abbiamo utilizzato per spiegare ai nostri alunni l'importanza della condivisione e della diversità.



La trama è alquanto semplice : in una sera d'inverno un vecchio lupo bussa alla porta di una gallina e le chiede semplicemente di poter cucinare una zuppa di sasso. La gallina accetta, ma aggiunge un pochino di sedano; pian piano accorrono tutti gli altri animali, che danno il loro contributo aggiungendo carote, zucchine, rape, creando così un bel clima di festa!

Una zuppa di sasso, quindi, è una storia di conoscenza, di amicizia e di condivisione.
Le chiavi di lettura sono, di conseguenza, molteplici: c'è la fiducia e la curiosità degli animali della fattoria che non hanno mai visto un lupo (qualcosa di diverso da noi), si parla dell'opportunità di integrazione che parte dalla condivisione di qualcosa, fino ad arrivare alla possibilità di superare le differenze di genere e razza (gli animali son tutti diversi: lupo, gallina, porcello, cane, oca …). È in pratica un libro da cui si può partire per fare diverse ed interessanti riflessioni!



È un libro che consiglio assolutamente, è adatto ad un pubblico vastissimo (si potrebbe dire da 0 a 99 anni!)
Solitamente il target consigliato di questo racconto è per bambini molto piccoli (vale a dire in età da scuola dell'infanzia), ma io non sono assolutamente d'accordo.
Abbiamo notato che anche ragazzini molto più grandi (età 4° elementare, cioè 9 – 10 anni) si sono appassionati alla storia ed abbiamo potuto proporre, con ottimi risultati finali, delle attività di riflessione impensabili con alunni più giovani.

Il libro, a mio parere, ha un solo difetto: non è scritto in rima
Chi è educatore, docente o genitore sa quanto le filastrocche o le rime piacciano ai bambini e, soprattutto, quanto siano utili per catturare e, a volte, mantenere la loro attenzione sul racconto.
Mi sono sentito in obbligo di ovviare a questa piccola mancanza.
Ai nostri alunni, quindi, è stato proposto nella versione riscritta da me.

Eccola:

Venite venite signori, signore, amici!
Tutti accanto a me, duchi, re ed imperatrici!
A narrar mi appresto
una nuova favola lesto lesto.
Arrivò un vecchio lupo,
nell'inverno più cupo,
in un villaggio dagli animali abitato.
Da quali intenzioni sarà animato?
Bussa ad una porta;
da dentro parla la gallina:
“chi bussa alla mia casina?”.
La risposta non la conforta.
“Non fare tutto questo fracasso!
Voglio solo cucinare la zuppa di sasso!”
dice il lupo senza alcun dente.
Il pennuto allora acconsente.
Il lupo prende un pentolone
per far cuocere il suo minestrone
e la gallina aggiunge di sedano un bel pezzettone
Il porcello preoccupato
nella casa si è recato.
“Tutto bene, tutto bene, siamo qui nella cucina
anzi porcellino prestaci una zucchina”
esclama la gallina a rimestar la zuppa intenta
“ne sarei molto contenta!”
L'oca ed il cavallo, in quel momento arrivati,
dicono che sono molto affamati.
“Io ci voglio anche i porri!”
“Su, cosa aspetti? A prenderli corri!”
Entrano alfine anche la pecora, la capra ed il cane
e portano il cavolo, le carote e le melanzane.
Mentre cuocion tutte le verdure
ognuno narra le sue avventure.
La cena fino a tardi dura,
tutti si servon con disinvoltura.
Infine il lupo se ne deve andare
e la bella compagnia salutare.
Riprende il suo sasso
e si allontana con lento passo.


Inoltre il tema centrale di questo libro, cioè la condivisione di qualcosa come preludio alla conoscenza dell'altro, sarà il leitmotiv dello spettacolo teatrale che la nostra classe sta preparando in collaborazione con persone diversamente abili ospitate nella Casa di Don Orione a Genova e con alcuni ragazzi del Carcere di Marassi. Una iniziativa che, giunta già all' 8° anno, sta diventando sempre più importante.
Speriamo che anche quest'anno sia un successo! 
Non per niente mi sono improvvisato anche “poeta”! 😄


lunedì 24 aprile 2017

L'insolito uovo

In questi giorni, sui banchi di frutta e verdura dei mercati e dai “besagnini di Genova sono comparsi una enorme varietà di asparagi.
Si va dai comuni verdi, a quelli bianchi e, raramente, si possono trovare anche quelli semi-selvatici, piccoli ed amari.

Il termine asparago (dal greco aspharagos, che è dal persiano asparag, ossia germoglio) può designare sia l'intera pianta che i germogli della pianta Asparagus officinalis . Appartiene alla famiglia delle Liliaceae (come l'aglio e la cipolla), e la parte edibile della pianta è il turione, vale a dire la parte di fusto sotterraneo che spunta dal terreno.
Diversamente da molte verdure, dove i germogli più piccoli e fini sono anche più teneri, gli steli più grossi dell'asparago hanno una maggiore polpa rispetto allo spessore della pelle, risultando quindi più teneri.

Gli asparagi sono tra i prodotti spontanei della terra maggiormente apprezzati sin dall’antichità.
Già gli Egizi lo consumavano e gli antichi Romani,nel 200 a.C., avevano addirittura dei manuali per la coltivazione. L’asparago è citato da Catone, Plinio ma soprattutto da Apicio che ne descrisse il metodo di coltivazione e di preparazione. Agli imperatori romani gli asparagi piacevano così tanto che avevano navi apposite per andarli a raccogliere nei litorali in cui nascevano spontaneamente. Dal XV secolo è iniziata la coltivazione in Francia dell'ortaggio, per poi, nel XVI secolo, giungere all’apice della popolarità anche in Inghilterra.

Io ho provato ad abbinare gli asparagi ad una ricetta semplicissima, vale a dire l'uovo sodo.

UOVA SODE CON TUORLO ALL'ASPARAGO

Dosi per 3 persone

3 uova sode
4 – 5 cucchiai di asparagi lessati e frullati
sale da cucina
sale affumicato
pepe
curcuma
noce moscata
olio extravergine di oliva
insalatina (per guarnire)

Far cuocere gli asparagi in abbondante acqua salata per circa 10 minuti. Spezzettarli e frullarli con un filo d'olio e un pizzico di sale. Dovrà risultare un composto omogeneo di colore verde, lievemente liquido.
Cuocere le uova in acqua per circa 10 minuti. Scolarle e togliere il guscio. Tagliare le uova a metà. Estrarre il tuorlo rappreso, facendo attenzione a non danneggiare né l'albume né l'incavo in cui è contenuto.
In una ciotola sbriciolare il tuorlo ed iniziare a lavorarlo con l'olio versato a filo. Regolare di sale e pepe.
Aggiungere la noce moscata grattugiata ed un buona spolverata di curcuma. Continuando a mescolare aggiungere al composto 4 – 5 cucchiai di asparagi frullati.
Riempire le uova sode con l'impasto ottenuto, in modo da ricreare il tuorlo. Spolverizzare con sale affumicato.

Tagliare a listarelle sottili l'insalatina e posarla sopra all'uovo ( serve per dare una note croccante e fresca, che rende il piatto più gustoso al palato).



mercoledì 19 aprile 2017

Gutturnio Riserva dell'azienda Agricola Ganaghello: otto anni portati splendidamente

 Recentemente, durante la manifestazione di Vinitaly, è stato celebrato il 50° anniversario dell'assegnazione del marchio DOC al vino Gutturnio.

Questo vino, infatti, è il capostipite dei vini rossi piacentini.
Nel 1967 il Gutturnio è stato tra i primi dieci vini italiani, nonchè il primo vino piacentino, a ricevere la denominazione d'origine controllata (DOC).
Il Colli Piacentini Gutturnio è un vino la cui produzione è consentita nella provincia di Piacenza ottenuto dall'unione di due vitigni: la Barbera e la Croatina.
Da segnalare che, localmente, la croatina è detta anche "Bonarda" sebbene non abbia nulla a che fare con il vitigno piemontese.

L’attuale vino Gutturnio deriva da Gutturnium cioè una coppa o tazza di argento di epoca romana, rinvenuta nel territorio piacentino verso la fine dell’ottocento. Aldo Ambrogio, nel 1938, citava il “Gutturnium” come un “bellissimo boccale o grande coppa di vino dissepolto nel 1878 a Veleia” (bellissima cittadina romana sulle colline piacentine), ma, ad oggi, non vi sono dati certi per tale ritrovamento.

Si narra che un ulteriore esemplare venne casualmente ripescato sulla sponda piacentina del Po, nei pressi di Croce Santo Spirito. Recentemente, però, la direttrice dei Musei Piacentini, intervenendo in un convegno del maggio 2016, ne ha completamente demolito l’interpretazione tradizionale, collocandolo tra i vasi impiegati per le misurazioni di liquidi, essenze, profumi, ma non sicuramente un oggetto per le libagioni.

Il nome "Gutturnio" del vino venne proposto nel 1938 dall'enologo Mario Prati e apparve per la prima volta nel 1939 su un'etichetta dell’azienda Manara di Vicomarino (Ziano).

Il disciplinare di produzione per i vini a denominazione di origine controllata Gutturnio, circoscrive la produzione delle uve che possono essere destinate alla sua realizzazione in diversi comprensori. Essi ricomprendono totalmente il territorio collinare del comune di Ziano Piacentino ed il territorio collinare parziale dei comuni di: Agazzano, Alseno, Borgonovo Val Tidone, Carpaneto, Castell’Arquato, Castel San Giovanni, Gazzola, Gropparello, Lugagnano, Nibbiano, Pianello Val Tidone, Piozzano, Ponte dell’Olio, Rivergaro, San Giorgio Piacentino, Vigolzone, Vernasca.
Sono considerati idonei alla produzione di Gutturnio unicamente i vigneti ubicati in zona collinare, bene esposti, su terreni argillosi o di natura calcarea, ciottolosi e ghiaiosi.

Nel territorio piacentino si producono diversi tipi di vino Gutturnio, vale a dire il Gutturnio Classico, il Gutturnio Classico Riserva, il Gutturnio Classico Superiore, il Gutturnio Frizzante, il Gutturnio Riserva ed infine il Gutturnio Superiore.
I più pregiati sono, ovviemente quelli con accanto la denominazione “Riserva”.
Il Gutturnio Riserva ed il Gutturnio Classico Riserva possono essere immessi al consumo solo in bottiglie di vetro di tipo bordolese e dopo almeno ventiquattro mesi di invecchiamento ed affinamento, di cui almeno sei in legno.

Il Gutturnio è un vino importante e complesso, ricco di note odorose particolari che spaziano dal floreale al fruttato. Dal punto di vista gustativo emergono soprattutto le componenti acido - tannica, che donano al Gutturnio i connotati di un vino corposo e di lunga persistenza gusto-olfattiva.

Qualche sera fa abbiamo provato ad assaggiare il Gutturnio Classico Riserva della Azienda Vinicola Losi di Ganaghello di Castel San Giovanni.




La bottiglia proveniva dalla vendemmia del 2008, quindi ha subito un invecchiamento di quasi 9 anni, che si ritrovano tutti nella importante gradazione alcolica (14,5°).



Il vino si presenta ben strutturato e corposo, grazie anche al lungo invecchiamento in botte. Immediatamente si percepiscono le note vinose però non accompagnate dal retrogusto tannico, che talvolta si riscontra in vini importanti, quali ad esempio quelli piemontesi.
Al palato risulta armonico seppur vi siano ancora accenni di bruschezza, dati dalla componente derivante dal vitigno Barbera. Oltre al profumo vinoso dominano, però note molto più delicate. Si percepisce un bouquet di frutta autunnale, pesche tardive, cachi ed uva.

Nel complesso un ottimo vino adatto ad accompagnare sia i piatti della tradizione piacentina, come ad esempio i Pisarei e fasö (un tipo di pasta con sugo di fagioli) sia portate più impegnative come ad esempio bolliti e brasati.

lunedì 17 aprile 2017

Cena di Pasqua: menù con influenze ebraiche

Quest'anno ho deciso di festeggiare la Pasqua con un menù non completamente legato alla nostra tradizione.

Prendendo spunto dal ritrovamento nella mia biblioteca di un libro di ricette ebraiche ho unito la tradizione ebraica del Pèsach con le ricette di famiglia della periodo pasquale.

Pèsach o Pesah è una festività ebraica che dura otto giorni e che ricorda la liberazione del popolo israelita dall'Egitto e il suo esodo verso la Terra Promessa. La Pasqua cristiana, per ovvie ragioni, trae origine proprio da questa festività.
Vi sono parecchi riti ed imposizioni legati alla celebrazione del Pèsach nelle famiglie ebree. I due principali comandamenti sono: cibarsi di matzah (cioè pane non lievitato) e la proibizione di nutrirsi di qualsiasi cibo contenente lievito durante l'intero periodo della festività. Sebbene parecchie siano le spiegazioni che sono state date al cibarsi di pane azzimo, la più accreditata è che si tratti di un ricordo del pane di cui gli Israeliti si cibarono durante l'Esodo.

Le prescrizioni rituali hanno poi dato origine a una cena particolare, chiamata seder, celebrata nelle prime due sere della festa.
Durante le prime due sere, infatti, si usa consumare la cena seguendo un ordine particolare di cibi e preghiere che prende il nome di seder, parola che in ebraico significa per l'appunto ordine, durante il quale si narra l'intera storia del conflitto con il faraone, delle 10 piaghe e della fuga finale, seguendo le preghiere dell'Haggadah di Pesach.

Durante la cerimonia un piatto, detto piatto del Seder, è parte centrale della narrazione che precede la cena. Il piatto del seder è di solito decorato ed ha dipinti tutti i principali simboli della festa.
Al centro sono poste tre Matzot (cioè il pane non lievitato) per ricordare la concitata e precipitosa fuga dall'Egitto. Attorno, nell'ordine, vi sono il karpas, solitamente un gambo di sedano che ricorda la corrispondenza della festività di Pesach con la primavera e la mietitura che, in epoca antica, era essa stessa occasione di festeggiamento. Le maror o erbe amare rappresentano la durezza della schiavitù; una zampa arrostita di capretto chiamata zeru'a simboleggia l'agnello pasquale che gli ebrei sacrificarono nella notte della morte dei primogeniti egiziani. L'uovo sodo è posto in ricordo del lutto per la distruzione del Tempio. Infine vi è una sorta di marmellata preparata con mele, datteri, mandorle, prugne, noci e, spesso, vino chiamata Charoset o Haroset che rappresenta la malta usata dagli ebrei durante la schiavitù per la costruzione dei mattoni. Nella tradizione ebraica italiana, inoltre, oltre ad una prima erba amara, si usa portare in tavola anche una seconda erba, cioè della lattuga.

Il mio piatto del Seder


Il menù della Pasqua di quest'anno è stato improntato alla semplicità e comprendeva pochissime portate.
Ho preferito “saltare” gli antipasti: spesso, infatti, si mangia tantissimo nei primi piatti e poi non si riesce a gustarsi appieno i secondi o i dolci proprio perché già sazi.
Ho acquistato solo il pane azzimo e la colomba (per ragioni di tempo non sono riuscito a prepararli).


Riso Basmati e riso selvaggio al sapore di asparagi



Costolette di agnello al forno accompagnate da salsa Haroset e pane azzimo




Pastiera e colomba


domenica 16 aprile 2017

Il Guercino in mostra a Piacenza

 Fino al 4 giugno 2017 la città di Piacenza ospita una mostra monografica dedicata al pittore romagnolo Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino.

Il Guercino è un pittore barocco nato a Cento (FE) nel 1591 e morto a Bologna nel 1666. Fin da giovane, oltre ad una spiccata predilezione per il disegno, mostrò problemi alla vista che gli valsero, appunto, il soprannome di Guercino.
Tale difetto fece, però, in un certo senso, la fortuna artistica del pittore dal momento che, quasi sicuramente, questa menomazione influenzò la visione soggettiva che l'autore aveva della luce e dei corpi nello spazio.
Lo stile pittorico del Guercino si distinse fin da subito dallo Stile Barocco allora in voga che tendeva ad abbellire nelle forme e nei colori il soggetto ripreso. Il pittore, infatti, preferì dipingere in maniera più realista, utilizzando una forte luce che cadeva dall'alto ed impiegò in modo sorprendente gli effetti del chiaroscuro.

La mostra, dal titolo Guercino tra sacro e profano, allestita nella Cappella Ducale di Palazzo Farnese, si concentra su alcuni capolavori del pittore di Cento, in modo da ricostruire la parabola artistica che lo ha portato a diventare uno dei maggiori artisti del Seicento italiano.

La rassegna presenta una selezione di 20 opere - in prevalenza pale da altare, ma con anche una significativa rappresentanza di quadri “da stanza” a soggetto profano – che consente di fare un excursus completo dell'opera dell'artista. Il percorso espositivo illustra le sue prime esperienze pittoriche a Cento, paese natale, svolte nel segno di una romantica adesione al linguaggio di Ludovico Carracci e, indaga la sua maturazione artistica a seguito dei soggiorni, prima a Bologna e poi a Roma.

Molto piacevole ammirare il dipinto “Et in arcadia ego” (1618) in cui le luci e le ombre sottolineano in modo mirabile la profonda riflessione sulla morte e sulla caducità delle cose terrene.



Anche ne “I santi Bernardino da Siena e Francesco d’Assisi con la Madonna di Loreto” la luce è la parte più importante del quadro e restituisce un effetto temporalesco come mai era successo prima nella storia dell'arte.



Come già accennato, nella mostra sono presenti anche soggetti più profani come ad esempio il sublime “ La morte di Cleopatra” in cui la regina più che agonizzante sembra abbandonata ad un piacevole sonno.



Da segnalare che, inoltre, a Piacenza il Guercino ha compiuto un'opera monumentale, completando gli affreschi della cupola del Duomo (1626), lasciati incompiuti dal Morazzone.
A tal proposito, da segnalare l'inconsueta iniziativa di poter ammirare da vicino questi affreschi compiendo la salita alla cupola del Duomo (da prenotare prima).



Solo una breve digressione personale: mi è già capitato di provare ad osservare da vicino affreschi delle cupole, nella fattispecie quelli del Correggio presso la Cattedrale di Parma nella mostra a lui dedicata alcuni anni or sono. Credo che simili opere d'arte siano state concepite dall'autore proprio per essere ammirate a diverse decine di metri di distanza; da vicino, talvolta, appaiono sgraziate e sproporzionate. Conseguentemente, senza nulla sottrarre all'iniziativa lodevole, io non mi sento di consigliare appieno una simile visione. Preferisco restare ad ammirarle dal basso, volgendo la testa verso l'alto e stupendomi della meravigliosa proporzione tra le figure.

La città di Piacenza, inoltre, merita anche una visita più approfondita del suo centro storico, con il Palazzo Gotico (unico in tutta Italia) e Piazza dei Cavalli, la Chiesa di Sant'Antonino (mirabile il campanile ottagonale), nonché la Chiesa di Santa Maria in Campagna da cui, nel 1095, durante il concilio di Piacenza, papa Urbano II avrebbe preso la decisione di indire la prima crociata per la riconquista di Gerusalemme.




Piacenza, insomma, è ancora una cittadina “a misura d'uomo” che è possibile visitare comodamente a piedi in una giornata, magari soffermandosi, per il pranzo, in una delle numerose trattorie in cui è possibile degustare piatti tipici del territorio.

venerdì 14 aprile 2017

Un ortaggio di cui non si può ridere: la cipolla

Fin da tempi antichissimi la cipolla (Allium cepa) era conosciuta ed utilizzata dagli uomini. E' una delle piante più coltivate nell'area mediterranea e si ritrova addirittura raffigurata nelle pitture delle tombe dei faraoni dell'Antico Egitto.

La cipolla è formata da foglie epigee ed ipogee carnose, che strato dopo strato formano il bulbo.
La cipolla, dunque, ha sempre avuto una duplice natura. Da un lato veniva considerata un cibo connesso alla generazione ed alla sensualità, dall'altro era un ortaggio ctonio e quindi, tranne in determinati periodi, era soggetto ad influenze malefiche. Ciononostante la cipolla veniva considerata efficacissima contro i malefici delle streghe e gli spiriti diabolici, a patto, però, di coglierla a luna calante, quando l'influenza infernale non agiva più sull'ortaggio.

La cipolla, quindi, ha suscitato anche simboli negativi. Essendo formata da vari strati sovrapposti, è diventata simbolo di doppiezza ed ipocrisia. Si dice “strofinarsi gli occhi con la cipolla” quando si finge di piangere. Del resto, come già detto poc'anzi, già gli antichi avevano ben compreso il suo carattere “doppio”.

Poichè un tempo pane e cipolla era un alimento da poveri, l'ortaggio divenne, sin dal Medioevo il cibo della miseria o della carestia. Fu dunque naturale associare la cipolla alla penitenza quaresimale, come testimonia l'iconografia della Quaresima nel celebre quadro di Pieter Bruegel il Vecchio intitolato ‘Lotta tra Carnevale e Quaresima’.




La scena descrive un combattimento simbolico tra il Carnevale (metà sinistra del dipinto) e la Quaresima (metà destra). Il primo è simboleggiato da un uomo grasso a cavallo di un barile e circondato da succulente pietanze, mentre la Quaresima è rappresentata da una donna vecchia miserabile ed affamata che porta cibi poveri come l'aringa e la cipolla.
Lo ricorda, del resto, anche un poeta fiorentino del XIV secolo, Antonio Pucci nella sua opera “Le proprietà di Mercato Vecchio”:

“Di quaresima poi agli e cipolle,
e pastinache sonvi e non più carne,
siccom' a santa Chiesa piacque e volle:
erbette forti da frittelle farne,
fave con ceci e ogni altra civaia,
che di quel tempo s’usa di mangiarne”.

Dal punto di vista della farmacopea la cipolla ha tantissimi usi ed è indicata come rimedio per malanni differenti. Si può utilizzare cruda come antisettico, cardiotonico ed antiscorbutico nonché diuretico. Contribuisce ad abbassare la pressione sanguigna ed il tasso di glucosio nel sangue, disinfetta l'intestino e stimola la circolazione periferica. La cipolla è un ottimo riequilibrante della struttura ossea, depuratrice e rigeneratrice delle cellule linfatiche e sanguigne. E' un tonico del sistema nervoso, aiuta e stimola le funzioni di pancreas, fegato e reni, antibatterica nelle affezioni di polmoni e delle vie respiratorie.
Se realmente vogliamo apprezzarne i benefici, però, è necessario consumarla cruda.
Effettivamente oggi si sa che la cipolla ha grande valore nutrizionale: ha glucidi, protidi, sali minerali, fosfati e nitrati calcarei, oligoelementi, zolfo, flavonoidi, vitamine A, B1, C2, PP, B5.

Nell'arco dei secoli è stata considerata gastronomicamente l'elemento principe dell'arte culinaria.
Una piccola facezia recita infatti:

“Disse la cipolla al cuoco: senza di me vali poco.
Disse il cuoco alla cipolla: ti voglio soda, non ti voglio molla.”

In cucina si utilizzano anche i fiori, che sbocciano da giugno ad agosto e che, sminuzzati, colorano e profumano le insalate fresche. Le foglie, inoltre, tagliate grossolanamente insaporiscono minestre, frittate, patate lesse o formaggi teneri.

Ed ora passiamo ad una ricetta che ho sperimentato qualche giorno fa.
Il nostro “besagnino” di fiducia aveva in offerta le cipolle bianche di maggio piatte ed abbiamo pensato di trasformarle in un contorno sfizioso e veloce cucinandole in agrodolce.



Le cipolle in agrodolce erano un contorno che non mancava mai nelle cucine delle mie nonne, dal momento che erano conservate in vasi ermetici, pronte per diventare parte dell'antipasto della domenica.
Si utilizzavano, però, le cipolle borettane che hanno un sapore particolarissimo ed inconfondibile.
La cipolla bianca di maggio, invece, ha un sapore delicatissimo, dolce e poco pungente.
Ne consegue che abbiamo provato a creare un agrodolce delicato e non adatto ad essere conservato per lungo tempo.

CIPOLLE BIANCHE PIATTE IN AGRODOLCE DELICATO

Dosi per 4 persone

500 gr cipolle bianche di maggio piatte
3 cucchiaini di zucchero
1 – 2 chiodi di garofano
mezzo bicchiere di aceto di mele
1 bicchiere di acqua
sale q.b.
olio extravergine di oliva q.b.


Tagliare le cipolle a spicchi non troppo piccoli.
In un tegame antiaderente aggiungere l'acqua e l'aceto di mele, farvi sciogliere lo zucchero ed il sale. Aggiungere i chiodi di garofano e portare a bollitura.
Aggiungere le cipolle e far cuocere per circa 5 minuti.
Scolare le cipolle e tenerle da parte. Se necessario, far ridurre il liquido di cottura. Versarlo sulle cipolle aggiungendo a crudo olio extravergine di oliva.
Servire tiepido.




lunedì 10 aprile 2017

Paneer, il formaggio indiano senza caglio facile da preparare

Il paneer (panir) è un formaggio fresco molto comune nella cucina dell'Asia del sud. È di origine indiana e pakistana.
A differenza di tutti gli altri formaggi, per la sua produzione non si utilizza il caglio come agente coagulante, bensì si acidifica il latte con limone o aceto.
Come tutte le ricette tradizionali, ogni famiglia ha, ovviamente, la sua versione.
La ricetta originale prevede l'utilizzo, come agente acidificante, del siero conservato dalla lavorazione del paneer precedente. In produzioni non casalinghe però si utilizza principalmente limone od aceto.

E' facile arguire come sia possibile preparalo in casa con il minimo sforzo.

Da segnalare, però, che se da noi è considerato alla stregua di un formaggio fresco che può essere anche aromatizzato con paprika, prezzemolo od altre erbe aromatiche, nella cucina indiana solitamente viene prodotto per essere utilizzato cotto in diverse ricette, come ad esempio i Paneer Tikka. Inoltre non viene mai salato il latte, proprio perché saranno gli aromi che si aggiungono nelle varie ricette a dare sapidità al formaggio.

Io lo trovo ottimo anche su del pane leggermente abbrustolito per un veloce spuntino, oppure, a volte faccio questa ricetta semplicemente per il piacere di mangiare un formaggio prodotto in casa da me.

PANEER

Dosi per un formaggio di circa 300 – 400 gr

1 lt di latte intero (se riuscite a trovare quello crudo è l'ideale)
1 pizzico di sale (opzionale)
succo di 1 limone
acqua q.b.


In un pentolino a fondo spesso far riscaldare il latte fino quasi a bollore mescolandolo perché non bruci sul fondo. Se si vuole, in questa fase, si può inserire il sale per dare maggior sapidità al formaggio. La salatura del latte è necessaria se non si desidera aggiungere il formaggio ottenuto ad altre ricette.
Spegnere la fiamma ed aggiungere il succo di limone diluito con un po' di acqua. Infatti, se il paneer si coagula troppo in fretta risulta gommoso.
Lasciare riposare per circa 10 minuti. Raccogliere con un colino a maglie fitte i coaguli di latte che affiorano in superficie. Sciacquare il paneer sotto l'acqua per eliminare l'odore di limone.
Porre il formaggio in una fuscella per formaggi con un peso sopra per far spurgare tutto il siero in eccesso. 
Se non si dispone di fuscelle per formaggi, si può utilizzare un colino a maglie fitte ricoperto da un telo bianco pulitissimo. Si pone il paneer al centro del telo lo si avvolge stretto, dandogli la forma preferita e si lascia spurgare il siero, sempre con un peso sopra.

Dopo un paio d'ore è pronto per essere mangiato.



Si può conservare in frigorifero coperto con un pellicola anche per 24 – 48 h.


domenica 9 aprile 2017

A teatro c'è “Una Scuola” anni '90 sempre attuale

Nei giorni scorsi al Teatro Politeama Genovese era in cartellone lo spettacolo “La scuola” di Domenico Starnone, successo teatrale di Silvio Orlando datato 1992.
A distanza di 25 anni l'attore ha riportato sulle scene lo stesso copione teatrale sempre per la regia di Daniele Lucchetti.
Il cast, oltre al già citato Silvio Orlando nel ruolo del professore di lettere Cozzolino, comprendeva anche Vittoria Belvedere (la prof. Baccalauro di ragioneria), Vittorio Ciorcalo (Don Mattozzi insegnante di religione), Roberto Citran (il preside), Roberto Nobile (il prof. Mortillaro di francese), Antonio Petrocelli (il prof. Cirrotta di impiantistica) e Maria Laura Rondanini (la prof. Alinovi di storia dell'arte).



Essendo un insegnante, come potevo non andare a vedere lo spettacolo?

E' l'ultimo giorno di scuola ed è tempo di scrutini per la IV D.
La scena si svolge interamente nella palestra della scuola, diventata da mesi sala professori “temporanea” perché la vera sala professori è inagibile a causa di dubbie infiltrazioni di colore giallastro. Sul palcoscenico si alternano i vari docenti, e dalle loro discussioni inizia a trapelare e a dipanarsi tutto l'anno scolastico appena trascorso fatto di gite (rectius viaggi d'istruzione), interrogazioni, compiti in classe ed ore di lezione.
I ragazzi non sono presenti fisicamente in scena ma ne sono i protagonisti assoluti, rivivendo nei discorsi dei professori, indecisi tra un 5 e mezzo ed un 6 meno meno.
Man mano che lo spettacolo prosegue emergono anche le storie personali dei docenti, le loro invidie, i loro tic e le loro manie. Se da una parte c'è il prof. Cozzolino che vuole a tutti i costi salvare “gli ultimi”, perché altrimenti la scuola italiana “funziona solo con chi non ne ha bisogno”, la maggior parte del consiglio di classe ha tutt'altro per la testa. Il professor Cirrotta, ad esempio è un ingegnere che ha un doppio lavoro (al pomeriggio dirige i cantieri della sua ditta di impiantistica), donnaiolo impenitente con colleghe ed alunne e probabilmente anche un po' assenteista ma è protetto dal preside a cui ha ristrutturato il bagno in casa; l’insegnante di religione manifesta una scarsa igiene personale e sentimenti non propriamente volti ad aiutare il prossimo; il professor Mortillaro, deluso ed ormai prossimo alla pensione, vorrebbe una scuola più seria, in cui si premia chi si impegna davvero e si puniscono gli scansafatiche, anche perché “la maggior parte dei suoi alunni sono nati per zappare la terra”, la professoressa di Storia dell’Arte pensa soprattutto alla sua Fondazione extrascolastica e non intende certo imparare a memoria i nomi di tutti i ragazzi (“con 10 classi come faccio a ricordarmeli tutti?”).
Solo la professoressa di Ragioneria sembra un pochettino più in linea con il professore di Lettere, ed infatti il suo segreto di Pulcinella è un mezzo flirt proprio con il medesimo.
Su tutti dovrebbe mantenere l'ordine un preside che ignora che le Metamorfosi di Ovidio non siano un film e che afferma di affrontare le questioni “in totem”.

La trama scorre veloce e fa davvero divertire ed allo stesso tempo riflettere. I dialoghi brillanti, egregiamente interpretati da un ottimo cast, reggono l'intero impianto drammaturgico della pièce. I vari personaggi incarnano il declino e lo sfascio di un'Italia che non crede più nel ruolo guida dei docenti, ed i docenti stessi sono proprio i primi ad arrendersi a questo.

Dal punto di vista di un insegnante “La scuola” è uno spettacolo leggero ma la tempo stesso alquanto veritiero ed a tratti grottesco.
Epica è la scena in cui viene ricordata la gita d'istruzione a Verona in cui le marachelle e gli escamotage dei ragazzi per eludere la nemmeno tanto stretta sorveglianza dei docenti raggiunge livelli da manuale. Si va, infatti, da giri in moto nel piazzale dell'autogrill in compagnia di individui non proprio raccomandabili, a lanci di cibarie varie sul pullman, da passeggiate sul soffitto dell'albergo a scelte di seguire altre gite perché “c'è una ragazzina più carina”. Memorabile è la replica del professore di lettere al Dirigente scolastico: “ Lei, Preside, se ne sta tranquillo nel suo ufficio, non sa che cosa è una gita scolastica! Alla fine della giornata io non mi ricordo più nemmeno il mio indirizzo!”.

Nel risentire oggi questo testo, si nota come sia ancora d'attualità e si capisce anche che su temi quali il ruolo degli insegnanti, il saper valutare, il saper accettare le sconfitte come le vittorie, il nostro paese è rimasto proprio agli anni ’90, se non peggiorato.




mercoledì 5 aprile 2017

Biscotti Quaresimali di Genova

Anche la città di Genova ha la sua ricetta dei biscotti quaresimali che differisce rispetto a quelle delle altre regioni italiane.

La ricetta originale si deve alle monache Agostiniane del Convento di San Tommaso (che oggi non esiste più, demolito per far spazio a Piazza De Ferrari). Le devote religiose sopperirono con la pasta di mandorle alla privazione dei grassi animali nei dolci secondo i dettami dell'ortodossia nel periodo di Quaresima. I primi Quaresimali furono prodotti a Genova nel 1500.
Nell'Ottocento la ricetta venne ripresa dalla più famosa pasticceria della città che la salvò dall'oblio.
Infatti, sul quotidiano “il Popolo d’Italia” nel 1868 si trovava scritto della Pasticceria Romanengo: "Durante la Quaresima il suo laboratorio trovasi al massimo dell’attività per il gran smercio di marzapani di cui il Romanengo non ha e non avrà rivali e di cui ogni buon cattolico può farsi una scorpacciata senza teme di dar poi gusto al demonio".




La ricetta originale non prevedeva assolutamente l'impiego di uova, ma , al giorno d'oggi quasi tutti aggiungono all'impasto gli albumi per poter “legare” meglio i dolcetti.

Esistono tre diverse varietà di Quaresimali genovesi che differiscono solo dal punto di vista visivo e dell'aroma, essendo l'impasto di base lo stesso.
Vi sono quelli a losanga denominati mostaccioli, solitamente riempiti con marmellata di fichi o limone, quelli a forma di canestrellini aromatizzati con l'acqua distillata di fiori d'arancio e quelli rotondi adagiati su un'ostia che vengono riempiti di zucchero fondente aromatizzato con varie essenze (a seconda del colore, con fragola, pistacchio, cacao e arancio).



QUARESIMALI GENOVESI

200 gr mandorle sgusciate
150 gr zucchero
2 albumi
farina q.b.
2 – 3 cucchiaini di acqua di fiori d'arancio
semi di finocchio confettati per decorare

Montare a neve ferma gli albumi. In un mixer ridurre a farina finissima le mandorle ed aggiungervi lo zucchero lavorandolo a lungo. Incorporare gli albumi montati a neve e ottenere un impasto piuttosto uniforme. Aggiungere l'aroma di fiori d'arancio. Se necessario incorporare un po' di farina per far sì che l'impasto non si attacchi alle mani.
Nella ricetta originale non è contemplato il prossimo passaggio ma io l'ho fatto per riuscire a modellare meglio le forme. Riporre l'impasto ottenuto in freezer per 10 – 15 minuti ricoperto con una pellicola trasparente.
Stendere l'impasto in spessore di circa 1 cm. Dare ai dolcetti la forma che si preferisce.
Per i mostaccioli dividere l'impasto steso in due parti e spalmarne una parte con marmellata di limoni o fichi. Sovrapporre l'altra metà e premere lievemente. Tagliare a rombi.
Per i canestrellini stendere l'impasto e formare delle piccole ciambelline che verranno ricoperte con i semi di finocchio confettato.
Per quelli rotondi ricavare dei dischetti dall'impasto e premere leggermente al centro per formare un piccolo incavo. Per decorare preparare della glassa (con zucchero a velo, acqua tiepida,coloranti ed essenze). Utilizzare la glassa per riempire gli incavi al centro dei dolcetti e decorare con i semi di finocchio confettati.
Infornare a 180° per circa 10 minuti fino a quando non avranno preso colore.




Ovviamente se trovate l'ostia alimentare, dopo la cottura, adagiarvi i dolcetti tondi con glassa.

martedì 4 aprile 2017

Scorze d'arancia candite: aromatiche ed utili

 In molte ricette, soprattutto di dolci, si scrive di aggiungere l'aroma di arancia e spesso si consiglia di farlo utilizzando quello già pronto in fialette.
Inutile dire che sono “un po' allergico” alle preparazioni industriali e che cerco di usarle solo se strettamente necessario.
Poichè a Genova è possibile trovare delle bellissime arance biologiche non trattate in superficie ho pensato di provare a candirne la buccia per utilizzarla nelle mie ricette di pasticceria, soprattutto nei mesi in cui non è si riesce a reperire il prodotto fresco da “grattuggiare” direttamente nell'impasto.

In rete vi sono diverse ricette per ottenere le scorze d'arancia candita. Oggi voglio descrivere la procedura che ho seguito e le varianti impiegate per ottenere due risultati differenti a seconda dell'impiego finale del prodotto.

In un caso, infatti, le scorze sono risultate essere più secche ma molto più aromatiche, e di conseguenza le utilizzo soprattutto tritandole finemente negli impasti dei dolci e quando voglio dare una aroma di arancia molto consistente. Con una preparazione iniziale lievemente differente, invece, sono molto più zuccherine e presentano uno spessore maggiore. Queste sono adatte anche ad essere rivestite di cioccolato o ad essere mangiate da sole proprio per la maggior consistenza della fetta stessa.

Come potete vedere dalla foto, quelle più in alto sono quelle più adatte all'aromatizzazione delle ricette, mentre quelle più in basso sono quelle maggiormente candite e dolci.




SCORZE DI ARANCIA CANDITA


Arance biologiche non trattate in superficie
Acqua
Zucchero

Lavare sotto acqua corrente le bucce d'arancia ed asciugarle tamponandole con la carta da cucina.
Se desideriamo ottenere delle bucce più secche ma più aromatiche, con un coltellino a lama sottile e flessibile cerchiamo di togliere quanta più polpa bianca possibile. Nel caso si volessero ottenere fette più spesse e zuccherine lasciarne quasi metà.
Tagliare a listarelle le bucce d'arancia e metterle in un pentolino ricoperte d'acqua fredda.
Far bollire a fiamma bassa per circa 15 minuti, scolare le bucce e ripetere l'operazione con acqua pulita.
Trascorsi altri 15 minuti scolare nuovamente e pesare le bucce.
Le due bolliture servono a ridurre notevolmente il sapore amaro e a rendere le fettine più morbide.
Pesare un quantitativo di zucchero pari al peso delle bucce e aggiungerlo nel pentolino ricoprendo completamente le scorze d'arancia.
Lasciare riposare per almeno 1 – 2 h.
Trascorso tale tempo sciogliere lo zucchero con circa 200 ml di acqua.
Far sobbollire lo sciroppo così ottenuto per circa 1 h. Lasciare intiepidire e far asciugare su una gratella o una reticella per almeno 24 h.



Se si desidera un gusto più dolce è possibile spolverare le bucce con un po' di zucchero a velo setacciato.

Si conservano in vasetti a chiusura ermetica per diversi mesi.